Le zone di transito in cui venivano trattenuti i migranti arrivati in Ungheria attraverso il confine con la Serbia sono state chiuse. Questo è avvenuto a seguito di una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
La decisione dell’organo comunitario è stata raggiunta a partire dalla valutazione dei casi particolari di due famiglie, una originaria dell’Iran, l’altra dell’Afghanistan. Entrambe erano detenute nella zona di Roszke.
I due nuclei familiari avevano attraversato il confine dalla Serbia e, giunti in Ungheria, avevano presentato richiesta di asilo nella zona di transito. Le autorità ungheresi avevano rigettato la loro domanda stabilendo il loro ritorno in Serbia che, però, ne aveva rifiutato l’accoglienza sulla base di accordi presi con l’Unione Europea.
Il provvedimento di rimpatrio delle due famiglie, quindi, era stato modificato in modo da prevedere il loro rientro nei paesi di origine, giudicati sicuri. In attesa della decisione riguardo al ricorso da loro presentato queste persone sono rimaste detenute a Roszke rispettivamente per 464 e per 526 giorni.
Le zone di transito ungheresi erano state oggetto, a partire dal 2015, anno della loro apertura, di numerosi rapporti di organizzazioni non governative che si occupano di diritti umani.
Queste, tra cui Amnesty International e il Comitato Helsinki, avevano denunciato le condizioni di mancato rispetto dei diritti umani che vigevano in quella parte di terra europea. I migranti, rinchiusi in spazi delimitati da filo spinato, venivano controllati continuamente da agenti armati. Il trattamento che veniva riservato loro dal governo, inoltre, era caratterizzato dalla totale assenza di riguardo per l’osservanza dei doveri umanitari. Negli anni sono stati denunciati diversi casi di diniego del cibo alle persone in attesa di essere rimpatriate.
La sentenza della Corte di Giustizia europea parte dalla definizione del concetto di “detenzione”.
La detenzione, si legge nel comunicato stampa che illustra la sentenza, corrisponde ad “una misura coercitiva che presuppone la privazione, e non la mera restrizione, della libertà di movimento di una persona”. Gli individui sottoposti ad una tale condizione sono isolati dal resto della popolazione e sono costretti a rimanere in un’area limitata e chiusa.
Questa, secondo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, era la situazione in cui si trovavano i migranti ospitati nelle zone di transito ungheresi:
Secondo la Corte, la condizione che prevale nella zone di transito Röszke è identificabile con la privazione della libertà, perché le persone non possono per legge lasciare quella zona in alcuna direzione. In particolare, non possono lasciare la zona per dirigersi in Serbia dal momento che un tentativo simile sarebbe considerato fuori legge dalle autorità serbe, li esporrebbe ad azioni penali e potrebbe comportare la perdita di ogni possibilità di ottenere lo stato di rifugiati in Ungheria.
Sulla base di questa valutazione l’organo europeo ha proceduto alla valutazione della compatibilità tra una simile condizione di detenzione e le regole dell’Unione Europea relative al trattamento dei richiedenti asilo e di coloro che sono in attesa di rimpatrio.
Le conclusioni, come anticipato, hanno stabilito che la detenzione dei migranti nelle zone di transito ungheresi fosse definibile come arbitraria.
Secondo l’Art. 8 della Direttiva europea sulle condizioni di accoglienza e secondo Art. 15 della Direttiva europea sui rimpatri, tanto coloro che sono in attesa di riconoscimento dello status di protezione internazionale, quanto coloro che sono soggetti a una decisione di rimpatrio, non possono essere sottoposti a misure detentive senza che ci sia stato un processo o una decisione formale, per il solo fatto di essere impossibilitati a provvedere a se stessi.
Gli Stati Europei, inoltre, hanno la possibilità di trattenere in strutture situate ai loro confini coloro che presentano richiesta di asilo, ma questa situazione non deve perdurare, secondo l’Art. 43 delle Direttive europee che regolano le procedure di accoglienza, oltre le quattro settimane dall’avvio della procedura di asilo.
La detenzione di coloro che sono in attesa di rimpatrio, infine, non può rivelarsi più lunga di 18 mesi.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, stabilendo l’illegalità delle zone di transito, ha invitato il governo presieduto da Viktor Orbán a chiuderle.
Una settimana dopo la sentenza, arrivata il 14 Maggio, il sottosegretario ungherese Gergely Gulyas ha dichiarato che, nonostante la contrarietà del governo di Budapest alla “malaugurata decisione” della Corte europea, questo avrebbe provveduto alla chiusura delle zone di transito perché l’Ungheria, in quanto stato membro dell’Unione, “rispetta ogni verdetto”.
Ancor prima dell’annuncio dell’esponente del governo di Orbán, durante la notte, circa 280 persone, tra cui molti bambini, erano state trasferite dalle zone di transito a centri di accoglienza aperti o semiaperti all’interno del paese.
Il portavoce ungherese di Amnesty International ha affermato l’importanza di una decisione di questo tipo, sottolineando, però, che la strada che l’Ungheria deve percorrere per raggiungere un livello consono di osservanza dei diritti umani nel trattamento dei migranti è ancora lunga.
La politica ungherese, infatti, consiste spesso nell’impedire l’ingresso dei migranti all’interno del territorio nazionale e nell’ostacolare il loro accesso alle forme di protezione internazionale. Spesso le richieste di queste persone non vengono valutate in modo adeguato e vengono respinte sulla base del passaggio a un paese diverso considerato sicuro.
L’Ungheria mantiene comunque un atteggiamento di sprezzo nei confronti dei valori europei.
A fine Marzo il parlamento aveva investito Orbán dei pieni poteri: una scelta motivata ufficialmente come necessaria per un’efficace gestione dell’emergenza Coronavirus. Da allora il governo ungherese ha varato diverse misure lesive dei diritti di due categorie di cittadini: le donne e gli omosessuali.
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea può darci, però, una rinnovata speranza che gli organi giudiziari internazionali possano ancora assolvere al loro compito di difesa dei diritti umani.
Silvia Andreozzi