La storia, si sa, è sempre scritta dai vincitori, da coloro che riescono ad emergere dalla massa ed innalzarsi come eroi immortali. Alcune volte, però, la storia viene scritta anche dai perdenti, da coloro che non sono riusciti a vincere, come nel caso di Thomas Soares Silva, in arte Zizinho.
Il nome Zizinho probabilmente non dirà molto al semplice appassionato di calcio; se però lo pronunciate in Brasile, tutti vi diranno che Zizinho è stato uno dei più grandi di sempre, al pari di Pelè, Garrincha e Ronaldo.
A livello internazionale, il suo nome è legato alla leggendaria edizione dei mondiali del 1950, svoltasi in Brasile.
Nel 1950 il Brasile aveva organizzato il quarto campionato del Mondo con un solo obiettivo possibile: la vittoria. Fu costruito il Maracanà, un imponente stadio da oltre 200 mila posti, furono realizzate strutture all’avanguardia, i grandi industriali come Ford iniziarono ad investire in Brasile e fu progettata una nuova e moderna capitale, Brasilia.
Era l’inizio di una nuova era, un era che avrebbe dovuto vedere il Brasile ergersi a potenza mondiale, fuori e dentro il campo di calcio.
Sul campo, la nazionale verde oro fu un vero e proprio rullo compressore; segnò 21 reti in 5 partite ed arrivò all’ultima partita contro l’Uruguay, nella quale bastava un pareggio per laurearsi campioni, dato che per la prima e unica volta, il Mondiale non veniva deciso da una finale, ma da una classifica di un girone a quattro.
La loro convinzione di essere superiori, però, costo cara; il Brasile andò in vantaggio con Ademir, ma poi si sedette sugli allori, non giocando più con convinzione; la nazionale uruguayana rispose prima con Schiaffino e poi con Ghiggia, i quali firmarono la “morte” di quel Brasile: il Maracanazo.
Di quel Brasile, Zizinho era la mezzala destra e formava una linea offensiva di micidiale efficacia con Ademir e l’altra mezzala Jair. Zizinho aveva un campionario tecnico infinito: fantasia, tecnica, visione di gioco, eleganza, finte, dribbling, tiro. Contro la Yugoslavia, segnò un gol meraviglioso, entrò in area, superò un difensore, infilò il portiere nell’angolo lontano. L’arbitro annullò inspiegabilmente. Zizinho non si scompose: nell’azione successiva prese di nuovo palla sul lato destro, entrò in area, dribblò il medesimo difensore e beffò il portiere nello stesso identico modo, con la palla nell’angolino.
Chi lo vide giocare in quel Mondiale, nei suoi anni d’oro nel Flamengo (tre campionati vinti in fila e un quarto nel ’57, a 36 anni), in Coppa America (vinta nel 1949 e di cui – insieme a Tucho Mendez – è recordman di gol con 17 reti) ne rimase incantato.
Egli era il Valentino Mazzola del Sud America, un giocatore capace di risolvere una partita con una giocata, un giocatore che emanava sicurezza e che interpretò come mai nessuno farà più l’essenza del calcio brasiliano, quello che unisce atletismo e capoeira.
La sua eredità sarà raccolta dalla generazione successiva, quella di Garrincha e Pelè, che porterà il Basile fuori da quell’incubo e che incanterà tutto il mondo abbinando tecnica e magia, proprio come faceva Zizinho.
Francesco Merendino