“Inimicizia contro Dio”. Così è chiamato il reato che rende Zeynab Jalalian una prigioniera politica dal 2008. Questo mese sono esattamente 15 anni che l’attivista curda per i diritti e l’emancipazione delle donne della sua minoranza oppressa è detenuta in Iran, nella prigione di Yazd, nella quale sta scontando l’ergastolo dopo aver subito un processo estremamente iniquo. Le sue condizioni di salute peggiorano a vista d’occhio
Le condizioni di salute dell’attivista curda iraniana Zeynab Jalalian, detenuta ingiustamente da 15 anni per motivi politici con l’accusa di moharebeh, ovvero di “fare la guerra a Dio”, continuano a peggiorare. Zeynab è una delle donne prigioniere politiche detenute da più tempo. La sua attività da attivista era legata principalmente alla battaglia in favore dell’autodeterminazione dei curdi ed in particolare dei diritti e dell’emancipazione delle donne della minoranza curda. La donna fu infatti arrestata sulla base delle sue attività e della sua relazione con l’ala politica del Partito per la vita libera nel Kurdistan (Pjak). Inizialmente, dopo un processo ai limiti del ridicolo a causa della sua estrema brevità e delle modalità di estorsione delle confessioni attraverso degradanti torture, fu in realtà condannata a morte. Grazie però all’attenzione pubblica dedicata al caso ed alle numerose proteste, questa condanna fu successivamente commutata in ergastolo.
La negazione delle cure mediche
Zeynab attualmente si trova infatti nella prigione di Yazd da 15 anni, all’interno della quale le viene negata qualsiasi forma di cura medica. Questo sta portando ad un grave peggioramento delle sue condizioni di salute, soprattutto in riferimento ad una patologia oculare per la quale rischia di diventare completamente cieca. La donna, inoltre, soffre di gravi problemi respiratori e polmonari, nati dopo aver contratto il Covid-19 diverse volte. Anche in questo caso le autorità iraniane hanno continuato a negarle le cure mediche necessarie. Questo sembra essere un vero e proprio modus operandi attuato nelle prigioni iraniane. La continua negazione delle cure mediche è infatti uno dei molteplici modi per punire ulteriormente i prigionieri politici ma soprattutto per estorcere loro informazioni e costringerli a delle dichiarazioni di pentimento e confessioni forzate.
I ricatti alla famiglia di Zeynab Jalalian
Il tema della concessione di cure mediche specialistiche o del trasferimento in un centro medico esterno dalla prigione per il trattamento dei diversi problemi che Zeynab ha sviluppato dall’inizio della detenzione ad oggi, non escludendo quindi che molti di essi siano il risultato delle ripetute torture e dei maltrattamenti inumani effettuati dai funzionari dell’intelligence, è divenuto infatti motivo di negoziazioni, o meglio ricatti, da parte delle autorità. Ad esempio, le autorità hanno proposto alla famiglia della prigioniera politica il trasferimento di Zeynab in un centro medico, a patto però che qualcuno si fosse proposto per essere detenuto al suo posto. A quel punto si offrì il padre, disperato e con la ferma intenzione di voler salvare la vita della figlia consapevole di star sacrificando la propria, ma le autorità iraniane non accettarono ugualmente. L’uomo in questione non andava bene, era troppo anziano mentre loro volevano qualcuno di più giovane, richiedevano il sacrificio di carne fresca da far marcire proprio come hanno fatto con quella di sua figlia.
Le condanne a morte per “inimicizia contro Dio“
Con l’accusa di reato di moharebeh, ovvero di “inimicizia contro Dio” o “fare la guerra a Dio”, sono stati giudicati colpevoli e condannati a morte anche diversi manifestanti che hanno preso parte alle proteste scoppiate in iran 4 mesi fa successivamente alla morte di Mahsa Amini, la ventiduenne curda morta dopo l’arresto a causa di una ciocca di capelli che fuoriusciva dall’hijab. Questo, ad esempio, è il caso di Mohsen Shekari. Egli aveva 23 anni e fu fermato dalle forze dell’ordine il 25 settembre, durante i primi giorni di protesta, con l’accusa di aver bloccato il traffico e di aver ferito un poliziotto. Mohsen rappresenta il primo caso delle 11 condanne a morte legate alla partecipazione alle numerose manifestazioni che hanno avuto luogo in Iran dopo la morte di Mahsa Amini. Il manifestante è stato arrestato con la stessa accusa di Zeynab Jalalian e, solo dopo 75 giorni dall’arresto, è stato giustiziato, in quanto il reato di moharebeh prescrive la condanna a morte.
Moharabeh: tra i più potenti strumenti di controllo del regime iraniano
L’utilizzo dell’accusa di reato di moharebeh anche in questo caso, dimostra come esso sia un espediente utilizzato dal regime iraniano per sopprimere e punire qualsiasi tipo di disobbedienza. Esso, infatti, è previsto nell’articolo 279 del Codice penale iraniano ed ha già di partenza una connotazione estremamente ampia e vaga. Questa connotazione è stata successivamente ampliata ancor più dalla giurisprudenza iraniana, la quale ha deciso anche di darle il significato di “opporsi all’ordine delle cose voluto da Dio”, dunque opporsi al regime stesso. A caratterizzare questo delitto sono le pene che vengono inflitte a coloro che vengono accusati di moharebeh. Tra queste, infatti, vi sono la morte, la crocifissione, l’amputazione della mano destra e della gamba sinistra e l’esilio. In questo modo diventa estremamente evidente come lo stato iraniano utilizzi l’accusa del reato di “inimicizia contro Dio” o di “fare la guerra a Dio” come l’ennesimo strumento di controllo e repressione sociale, il che sottolinea come sia necessaria una mobilitazione internazionale che vada contro determinati meccanismi. L’esecuzione di Mohsen Shekari, la morte di Mahsa Amini, la detenzione inumana di Zeynab Jalalian sono tutte grida di aiuto e disperazione che devono risvegliare in noi una coscienza diretta alla presa di provvedimenti concreti a livello globale, in quanto non è possibile che ancora oggi si corra il rischio di finire al patibolo per punti di vista e credenze personali.