Zehra Doğan e arte femminista: “Jin, Jîyan, Azadî”

Zehra Doğan e arte femminista -

Zehra Doğan e arte femminista: gli elementi dei dipinti e delle opere che la hanno resa famosa, realizzati quando si trovava in carcere, scendono in piazza. Zehra Doğan mette la sua arte a servizio del coro “Jin, Jîyan, Azadî”, restando vicina alle sue compagne curde, anche se da Berlino. Le rivolte curde e iraniane passano ancora attraverso i suoi strumenti artistici.

Zehra Doğan, artista curda, è divenuta famosa per le sue opere d’arte che hanno denunciato le violenze della polizia turca, atte a sopprimere la resistenza della comunità curda. Manifesta il suo pensiero anche oggi, restando vicina alle sue compagne curde e iraniane che lottano per la loro libertà, per quanto si trovi lontana da loro. Abituata a diffondere la sua arte sui social, negli anni degli scontri a Nusaybin, di cui riporta le tragiche conseguenze, altrettanto fa per unirsi al grido di “Jin, Jîyan, Azadî”.  Le rivolte, iniziate con l’uccisione di Jîna Amini, si sono propagate dalla comunità curda in Iran, a tutto l’Occidente.

La sua arte, questa volta, si esprime con una protesta. Doğan, il 15 di Ottobre, si reca presso l’ambasciata iraniana a Berlino, dove attualmente vive, con un barattolo contenente henné e sangue mestruale e dei capelli di donna. Si fa riprendere nel gesto di prendere una manciata di liquido dal barattolo e la ciocca di capelli e spargerli sul cancello del consolato.

“Berlino, Consolato iraniano. Siamo di fronte a loro con ciò che loro stessi hanno maledetto; sangue mestruale, henné e capelli. Non siamo sole, siamo ovunque!”

Nella stessa data pubblica sui suoi social un altro video, in cui scrive, con del sangue mestruale, l’inno della rivolta che sta avvenendo in Iran:

“Jin, Jîyan, Azadî”

Zehra Doğan e arte femminista: elementi artistici

Il sangue mestruale. Doğan inizia ad utilizzarlo nei suoi anni di carcere in Turchia. Sa di essere stata imprigionata per la sua arte e comprende che la sua vita, il suo scopo, è quello di continuare ad essere testimone, tramite la sua mano creatrice. E tuttavia, non essendo forniti i materiali per poter disegnare (anzi, racconta di continui sequestri) Zehra Doğan si trova a dover usare il reperibile in quelle condizioni, come strumento per comunicare. Allora utilizza il sangue mestruale per tingere di rosso le sue opere. Questa tecnica fa di una necessità, una grande virtù. Il liquido espulso dall’utero, durante il ciclo mestruale, che permette alle donne di creare vita. Nelle opere di Doğan, nelle quali viene raccontata la sofferenza delle donne, in carcere e nella resistenza, il sangue diviene simbolico, le permea di elemento femminile. 

Henné. La polvere rossa, ricavata dall’essiccazione di una pianta, è tanto vicina alla cultura curda. Usato nelle cerimonie femminili precedenti il matrimonio e come pigmento per i tatuaggi deq (originariamente però realizzati con pigmenti non temporanei), che, oltre ad avere significato spirituale, identificavano la tribù di appartenenza dei curdi. Ecco che l’henné racconta del popolo curdo e delle loro resistenze.

Capelli. Peli e capelli sono sempre stati utilizzati, dall’artista, sia come elemento d’arte, che come strumento per dipingere. Nelle sue opere le donne hanno i capelli scoperti e, spesso, questi non sembrano disegnati, ma quasi incollati o ricalcati sulle tele (ovvero lenzuola, fogli di giornale, tessuti).  Nell’opera che si unisce al coro di “Jin, Jîyan, Azadî”, Doğan aggiunge valore ai capelli, spesso contenuti nella sua arte. I capelli delle donne che si liberano in Iran, sul cancello del consolato a Berlino, si impregnano di femminilità e si alzano a baluardi di fronte allo stato e al suo potere maschile.

“Ecco perché pratico la mia arte con i capelli e il sangue. Voglio dire ‘sono qui’, ‘siamo qui’, con la mia femminilità contro lo stato maschile che opprime le donne tenendole per i capelli”

Rescali S. Priscilla Eva

Exit mobile version