Giornata di saldi. Frotte di clienti agguerrite si fiondano nei negozi per accaparrarsi bei vestiti a poco prezzo, alcune di loro usciranno trionfanti con l’abito dei sogni. Insomma, ecco le piccole grandi gioie che la società del benessere e del consumismo ci ha regalato.
La società del benessere, però, non è uguale per tutti: dietro i nostri bei capi d’abbigliamento a buon mercato, si cela troppo spesso lo sfruttamento dei lavoratori da qualche parte nel mondo. Anche la nota catena di negozi d’abbigliamento Zara si è macchiata di questa colpa, causando la ribellione dei lavoratori turchi.
Un adesivo per dire: “Pagateci!”
I lavoratori turchi hanno applicato ai capi di abbigliamento di molti negozi Zara di Istanbul un adesivo che recita: “Il prodotto che state comprando l’ho fatto io, ma non sono stato pagato”.
Una protesta pacifica per dare voce ad un problema grave e chiedere aiuto anche ai clienti. I lavoratori chiedono di ricevere il loro stipendio e denunciano di aver lavorato senza essere pagati per ben 3 mesi.
Erano dipendenti dell’azienda tessile Bravo che produce indumenti per Zara, Next e Mango. Questa fabbrica ha chiuso improvvisamente nel luglio 2016, lasciando senza salario 140 dipendenti. Nonostante le vittorie ottenute presso le corti turche, questi operai non hanno ricevuto le somme dovute. Infatti i grandi brand della moda rifiutano di assumersi la responsabilità dei debiti della fabbrica Bravo che lavorava per loro.
Da qui nasce l’iniziativa degli adesivi di protesta che ha stimolato la solidarietà dei clienti.
La catena di solidarietà e la Campagna Abiti Puliti
La protesta degli adesivi ha riscosso molto successo tra i clienti che hanno dato vita ad una catena di solidarietà, amplificata dalla Campagna Abiti Puliti che ha lanciato un’apposita petizione online. La cifra dovuta a questi lavoratori ammonta a circa 650.000 euro che equivale allo 0,01% delle vendite nette del brand spagnolo nel primo quarto del 2017.
Dopo un anno di trattative, i colossi della moda si sono dichiarati disponibili a corrispondere appena un quarto della somma dovuta.
La speranza è che la catena di solidarietà amplifichi sempre più la voce dei lavoratori, fino a risolvere il problema.
Gessica Liberti