XIII Emendamento: un documentario che senza mezzi termini affronta l’argomento del razzismo negli Stati Uniti. Una cruda e dettagliata descrizione della metamorfosi delle forme di discriminazione e asservimento delle minoranze etniche attraverso il sistema economico e giuridico degli Stati Uniti, negli ultimi due secoli.
Il documentario è stato diretto e scritto dalla regista statunitense Ava DuVernay, in Italia la conosciamo per avere diretto la regia di Selma- La strada per la libertà. XIII Emendamento è stato il film di apertura del New York Film Festival 2016.
La DuVernay con didattica maestria costruisce un excursus, in cui a parlare sono i fatti. Partendo dal 1865, data in cui è entrato in vigore il 13esimo emendamento, fino ad arrivare ai nostri giorni, con l’uccisione di un ragazzo di 10 anni a Ferguson.
Attraverso archivi fotografici, interviste di membri dell’establishment, voci narranti di storici e attivisti dei diritti umani, tra i quali c’è l’attivista Angela Davis, il docu-film ci spiega come dall’approvazione del 13esimo emendamento, che aboliva formalmente la schiavitù, si sono susseguite forme alternative di oppressione dei cittadini di etnia afro-americana.
Storie di soprusi verso le minoranze e legittime rivendicazioni di uguaglianza taciute con la violenza e l’assassinio pubblico, affinché quei diritti scritti sulla Carta non venissero realmente applicati. Il 13esimo emendamento andava a minare gli utili e i vantaggi competitivi delle piantagioni e industrie del Sud degli Stati Uniti, un sistema di sfruttamento dell’uomo su cui si fondava la grande ricchezza dei bianchi negli stati del sud.
I media statunitensi, come il cinema e la stampa sono complici nella costruzione di una rappresentazione volontariamente distorta delle persone di pelle scura e delle notizie che li riguardano, come il film Nascita di una nazione di Griffith in cui all’afro-americano viene dato il ruolo di violentatore di un’innocente ragazza dalla pelle bianca. Il grande pubblico viene istruito a vedere gli ex-schiavi come criminali, arricchendo l’immaginario collettivo dell’uomo nero.
Il sistema della schiavitù cambia forma e istituzioni, fino a legittimarsi negli anni sessanta sotto lo slogan della lotta contro la criminalità e la droga. Dalla presidenza del repubblicano Ronald Regan in poi, i media spalleggiano le nuove politiche di discriminazione e incarcerazione di massa delle minoranze considerate pericolose per le istituzioni vigenti, queste vengono sapientemente progettate e i loro fini reali mascherati.
Il consenso verso queste politiche si fonda sul terrore e le paure delle persone. Paure fomentate dalle campagne elettorali di molti candidati presidenti per vincere le elezioni, sia tra i repubblicani che tra i democratici.
Il drammatico fine è ricorrente attraverso i secoli e le culture: l’essere umano viene utilizzato come fattore produttivo di un altro essere umano che lo asservisce. Questo comportamento pernicioso toglie dignità all’essere umano che lo esegue e purtroppo anche a chi lo subisce. L’umanità tutta si disumanizza perché una piccola parte di essa possa arricchirsi.
Sorge spontaneo il parallelismo tra questi avvenimenti nel nuovo continente e altri, più recenti, nel vecchio continente, come la proposta di fare lavorare i rifugiati nei centri di accoglienza senza retribuirli, un passo pericoloso verso una antica piaga, una rinnovata schiavitù.
Giulia Saya