Mona Haydar: attivista musulmana, cantante rap, femminista. Perché non c’è mai spazio abbastanza per esercitare il potere di far crollare gli stereotipi.
Mona Haydar è una giovane attivista, cresciuta a Flint, Michigan dove si è laureata alla Michigan University. Ha proseguito gli studi sulla lingua e la spiritualità islamica a Damasco e adesso vive in California con suo marito e suo figlio.
Divenuta già celebre per l’iniziativa “Ask A Muslim”, nella quale, offrendo caffè e ciambelle ai passanti, invitava i passanti a dialogare con lei per discutere insieme di tutte le domande riguardo il mondo arabo e l’Islam che d’uso porsi.
Il 17 marzo di quest’anno ha pubblicato, su Youtube, il suo primo brano rap intitolato “Hijabi (Wrap My Hijab)“: un video che ha raccolto oltre 700 mila visualizzazioni e che ha riscosso moltissimo successo.
Il video, girato molto bene, con una fotografia intensa e un setting dai richiami arabeggianti e dai colori intesi, ritrae diverse donne vestite con il velo in testa – lo hijab, appunto -, in posa statuaria o intente a ballare.
Mona Haydar, scrittrice del testo e cantante, espone durante la canzone tutta una serie di domande stereotipate che vengono quasi spontaneamente a chi, poco preparato riguardo la cultura islamica, le pone.
Ciò che colpisce di questa canzone, calcolata a puntino per aggradare il pubblico globale – con tanto di balletto accattivante e ritornello orecchiabile e che rimane fisso in testa – è l’impronta femminista.
È la prima volta che in un videoclip musicale una donna esprime a pieno la sua libertà nel portare il velo.
Si discute molto del significato del velo e di ciò che comporta per la donna indossarlo ed è facile trovare un pullulare di opinioni contrastanti a riguardo. Opinioni che spesso incitano solo all’odio e all’islamofobia, in quanto sorrette più da stereotipi che da osservazioni realistiche.
È possibile trovare a riguardo – se non nella stampa italiana, la quale sembra più avvezza ad alimentare l’odio per fare pressione sul populismo, tanto utile a un certo tipo di classe dirigente, almeno in quella internazionale – diversi articoli e video riguardo testimonianze di donne che dichiarano di aver scelto di indossare il velo e il perché.
Ciò che sembra facile ignorare è che esiste una scelta dietro ogni gesto, una specifica ragione ponderata dietro una cultura che sembra imposta; la libertà di scegliere, per l’appunto.
Nel video sono presenti diversi tipi di hijab e come si evince dall’ultima strofa del testo, ognuno di essi rappresenta diverse popolazioni:
You’re just jealous of my sisters
These Mipsters, These hippies
These Prissies, These Sufis
These Dreddies, These Sunnis
These Shii’s, Yemenis
Somalis, Libnanis, Pakistanis
These Soories, Sudanis
Iraqis, Punjabies
Afghanis, Yazeedis
Khaleejis, Indonesians
Egyptians, Canadians
Algerians, Nigerians
Americans, Libyans
Tunisians, Palestinians
Hidden beyond the Mekong in Laos
Senegalese and Burkina Faso
Rendendo visibile dunque il dubbio riguardo quanto noi occidentali siamo davvero preparati sul tema. Che sia possibile che ciò che sappiamo, ciò che gridiamo durante dibattiti feroci pieni di odio e discriminazione, sia non solo una parte minuscola della realtà, ma persino falsata?
La cultura islamica è ricca e sfaccettata. Che possa contenere contraddizioni per la libertà e il rispetto dell’individuo è possibile; per il ruolo sociale della donna, anche.
Ma guardando alla nostra religione, alla nostra società, ai giorni nostri: possiamo esseri sicuri di possedere la libertà, la giustizia, la ragione?
Oppure forse è il caso di rimettersi in discussione, di aprirsi al dialogo e scoprire le differenze ma soprattutto le affinità tra una cultura e un’altra, tra un popolo e l’altro?
Il video di Mona Haydar è un’esercizio di umanità di cui abbiamo bisogno. Un messaggio di femminismo al quale dobbiamo abituarci, al di là della religione e della lingua.
Perché non esiste mai una sola campana da cui ascoltare la verità.
Se poi questa è fruibile anche su youtube, tanto meglio.
Gea Di Bella