Workaholism, dallo stacanovismo alla mania del lavoro

I più grandi lavoratori della storia sono stati, sincronicamente, uomini soli, abulici, dolenti. Dal 1971 l’assuefazione dall’attività lavorativa ha un nome: workaholism. Il neologismo, che rafforza la sua carica rappresentativa se declinata all’inglese, indica una vera e propria tendenza a dipendere da uno degli elementi della vita di un individuo: il lavoro. Al pari di altre soggezioni, anche quella dal lavoro, se mal gestita, può trasformarsi in una prigione. Lo sa bene la generazione Z, molto più attenta ai temi della salute mentale e del bilanciamento tra vita privata e produttività lavorativa. Un giro di boa, inasprito dalle conseguenze post-pandemiche, che invita a ricollocare il benessere interiore in cima alle priorità. Perdonandosi, anche, l’esigenza di dedicarsi del tempo libero.

L’eccessiva dipendenza dal lavoro diventa Workaholism

Il termine Workaholism è stato introdotto da Oates Wayne, psicologo e educatore americano di forte orientamento cattolico, nel 1971. Quello dello studioso fu un atto di coscienza, un bagno di consapevolezza. Quado egli stesso dovette dare appuntamento al figlio nel proprio studio per riuscire a parlarsi, si allarmò. La tortorata di questa cognizione fece assurgere in Oates la possibilità di aver sviluppato una vera e proprio dipendenza dal lavoro, al pari di altre sostanze assuefacenti.  Il costante e persistente assillo del lavoro, una preoccupazione che bacia la polvere della maniacalità, la propensione a considerare vanificata una giornata non interamente fluita verso l’ara votiva della professione. E poi il malessere psicofisico, il calo del desiderio sessuale, una insolita misantropia. Spie lampeggianti che determinano la trasmigrazione in patologia e che confluiranno, nello stesso anno, nel libro Confession of a Workahoholic.




Quando lo studioso morì, nel 1999, il New York Times, nel necrologio a lui dedicato, gli riconobbe due grandi meriti. Primariamente la produzione letteraria; lo psicologo, infatti, durante la carriera pubblicò ben 57 libri. E poi, il pregio di aver introdotto nel linguaggio comune, che verrà poi incluso nel dizionario di inglese Oxford, il termine Workaholic, nato dalla crasi tra work e alcoholism. È evidente che posizionare l’attività lavorativa sullo stesso piano di una sostanza tossica per l’organismo, ne accentui il detrimento della sua essenza. Naturalmente, lo stesso Oates, nel saggio riconosce la maggiore accettabilità sociale del dipendente dal lavoro piuttosto che da chi affoga la giornata in un Glencairn di rum invecchiato o su una striscia di cocaina.

Il lavoro ha reso l’uomo schiavo, poi libero, poi di nuovo schiavo.

L’animale produttivo dello stacanovista è stato storicamente tratteggiato come un uomo dotato di zelo e dedizione al lavoro fuori dal comune. Caratteristiche estirpate dal padre del movimento, il minatore Aleksej Grigoriyevich Stachanov. Il lavoratore russo, il 30 agosto del 1935, estrasse, da solo – almeno questo ci raccontò la propaganda russa – 102 tonnellate di antracite in cinque ore e quarantacinque minuti. Ghermendo, così, un proverbiale record. E la réclame stalinista non si fece certo sfuggire l’occasione di elevarlo a modello da emulare. Il poco celato intento, chiaramente, era quello di accrescere la razionalizzazione del lavoro e aumentare la produttività.

Le grandi maestre della storia, dell’antropologia e della sociologia, però, ci insegnano il paradosso del lavoro. Da quando, a partire dal 900, ha mutato natura, tracimando dal senso unicamente proletario indossato per secoli, si è scrutata tutta la sua schizofrenica ambivalenza. Esaltato quando in esso si individua la chance dell’autorealizzazione e del soddisfacimento dei desideri, aborrito quando se ne coglie la fisionomia strumentale e venale.

L’identikit del maniaco del lavoro

Winston Churchill era un uomo poliedrico: politico, statista, soldato, scrittore. Investito della carica di primo ministro del Regno Unito osservò un disegno rigorosissimo, trascorrendo, mediamente, più di diciotto ore a lavoro. Senza, peraltro, tralasciare la carriera di scrittore. Al termine della sua vita, poteva contare la stesura di 72 volumi. Oltre che da una esacerbante dedizione all’occupazione, Churchill fu accompagnato per tutta la vita dal suo “cane nero”.  Una forma di depressione quasi paralizzante che non lo abbandonò neppure per un istante. Molti studiosi hanno riconosciuto in lui una forma di bipolarismo tendente alla mania. Disturbo che gli permetteva di passare quasi tutta la giornata sul tavolo da lavoro. Esiste, però, una differente corrente di pensiero che, ribaltando la medaglia, traduce la sua mania lavorativa come causa della sua sofferenza interiore, provocata anche dallo stress.

Quali sono, dunque, gli elementi che definiscono un maniaco del lavoro? Nonostante la considerevole attività di ricerca e consequenziale produzione letteraria, non esiste ancora una definizione medica condivisa. Gli psicologi, però, perlustrando il lungo e in largo la res cogitans umana, hanno individuato alcune caratteristiche che distinguono una persona semplicemente diligente dal lavoratore tossico. Il workaholic adopera il lavoro per dar sollievo a sentimenti d’ansia, di bassa autostima e a un senso di vuoto interiore, che imbottisce tenendosi occupato. Ricerche diagnostiche più prossime alla modernità, hanno riscontrato, nei dipendenti dal lavoro, lo stesso comportamento abitudinario del tossicodipendente, che si abbuffa di sostanza e, appena se ne allontana, ne subisce l’astinenza.

Ripensare il lavoro: la settimana finisce il giovedì

È proprio grazie agli studi donatici dalla sociologia moderna, che tenta di superare l’assetto industriale e fordista del lavoro, se oggi si può intravedere una nuova condotta occupazionale che pone il benessere del lavoratore in vetta alle priorità. La freccia scoccata già negli anni ‘80 sulla qualità del lavoro, si traduce oggi in contenuti di senso non esclusivamente strumentali e alienanti. Nonostante l’idea di sacrificio che lo ha sempre sotteso, emerge, quindi, una dimensione del lavoro smacchiata dalla sua declinazione capitalistica. Quiet Quitting è l’altro neologismo anglosassone che sta prendendo piede nell’apologia impiegatizia e si traduce con “fare lo stretto necessario” per preservare la salute mentale e non lasciare che il lavoro interferisca con gli altri aspetti della vita privata. Certo, necessiterebbe trovare un giusto equilibrio tra i due estremi ma l’ascoso sentiero pare essere stato rintracciato.

Già misurata da alcuni Paesi, come l’Inghilterra e la Spagna, comincia a instradarsi nel mondo occidentale, storicamente avvezzo alla precauzione latina ora et labora, la possibilità di ridimensionare il peso di questo coefficiente. I risultati fanno già ben sperare. Illuminanti quelli estrapolati dalla analisi condotta da un gruppo di studiosi di Cambridge su un campione di 61 organizzazioni che per 6 mesi ha ridotto del 20 % l’orario di lavoro, lasciando invariato lo stipendio. Come è andata? Il 92 % dei tester aziendali afferma di voler mantenere la settimana lavorativa corta, che consta di inconfutabili benefici.

A parità di ricavati praticamente uguali, il 71 % dei lavoratori ha riportato sintomi di burnout in calo. Di riflesso, in un clima più sereno, le richieste di malattia sono diminuite del 65% mentre le dimissioni calate del 57. I giovamenti sono incontrovertibili, tanto che, in entrambi gli emisferi, innumerevoli sono i tentativi di tallonare il nuovo modello. Siamo, a questo punto, davvero pronti a sovvertire l’ordine paradigmatico del lavoro, confinandolo a una delle infinitesimali espressioni del quotidiano?

Martina Falvo

 

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