Dopo 62 giorni, Chelsea Manning, l’ex militare statunitense talpa di Wikileaks, è di nuovo libera.
La donna era stata incarcerata lo scorso 8 marzo nella prigione “William G. Truesdale” di Alexandria, in Virginia, con l’accusa di oltraggio alla Corte. Manning si era rifiutata di testimoniare davanti a un gran giurì in merito all’indagine statunitense sull’organizzazione internazionale fondata da Julian Assange.
La donna aveva dichiarato di aver già detto tutto quello che sapeva alla corte marziale che la giudicò nel 2013 e di non aver nient’altro da aggiungere. Ma il giudice federale non aveva affatto accettato la decisione della 35enne e aveva minacciato di lasciarla dietro le sbarre finché non avesse parlato del suo ruolo nella faccenda Wikileaks, o fino a quando la procura non avesse concluso le indagini. I suoi avvocati avevano denunciato come la sua detenzione avesse uno scopo “punitivo”.
“Lei è convinta che testimoniare significherebbe tradire le cose in cui crede. È pronta a pagare le conseguenze”, hanno dichiarato i suoi legali.
E così è stato: Chelsea Manning è stata scarcerata al termine dell’inchiesta del gran giurì. Ma la sua libertà potrebbe, secondo i suoi avvocati, avere le ore contate, in quanto è già stata raggiunta da un nuovo ordine di comparizione per il 16 maggio. A quanto pare Manning non parlerà nemmeno in questa occasione.
In che modo Chelsea Manning è legata a Wikileaks? Breve ricostruzione storica.
Il soldato Bradley Edward Manning, diventato Chelsea nel 2013, all’epoca analista dell’intelligence americana, era in servizio in Iraq, a est di Baghdad, con la 10th Mountain Division. Nel 2010 fu denunciato alle autorità militari dall’hacker Andrian Lamo per avergli rivelato in chat di aver consegnato a Julian Assange dei file riservati, tra cui il video di due elicotteri Usa che uccidevano 12 civili disarmati, conosciuto come Collateral murder. Dopo poco Manning fu arrestato. Venne prima tenuto in custodia in Kuwait, poi in una prigione in Virginia. Le sue condizioni di reclusione furono a dir poco disumane: veniva tenuto in isolamento 23 ore al giorno, nell’unica ora libera poteva camminare in circolo in una stanza, doveva dormire con la luce accesa ed essere sempre ben visibile dalle guardie qualsiasi cosa facesse. Dopo dieci mesi, sotto la pressione internazionale, fu trasferito in una prigione del Kansas.
Nel maggio 2012 iniziò il processo. Un anno dopo, Manning si dichiarò colpevole di aver fornito a Wikileaks documenti segreti, raccolti durante il suo lavoro di analista nell’esercito Usa. L’organizzazione Wikileaks ha sempre dichiarato di non riconoscere nella figura di Manning una sua fonte, in quanto tutti i documenti ricevuti erano stati inviati in forma anonima. Nell’agosto dello stesso anno fu condannato a 35 anni di carcere per 20 dei 22 capi d’accusa per cui era imputato. Subito dopo la condanna, l’ex soldato ha dichiarato di non riconoscersi nel genere maschile. Ha, quindi, cambiato nome in Chelsea Elizabeth, e iniziato una terapia ormonale per consentire il cambio di genere.
Nel 2017 il presidente uscente Barack Obama ridusse la sua pena, permettendo la scarcerazione nel mese di maggio dello stesso anno.
Cosa giudica ora il giurì?
La “grande giuria”, prevista da alcuni ordinamenti della common law, ha il compito di valutare la sufficienza di prove per iniziare eventualmente un processo penale. Rappresenta, quindi, una sorta di udienza preliminare, con cui, infatti, è stata sostituita in molte nazioni. Sopravvive ancora negli Stati Uniti per i reati più gravi di competenza federale. La grande giuria può essere composta da un massimo di 23 membri, tratti a sorte dai cittadini.
In questo caso specifico, il gran giurì del dipartimento della Virginia sta indagando in merito alla diffusione di documenti sulla Cia da parte di Wikileaks. Nel marzo 2017 il sito iniziò a pubblicare una serie di file, classificati con il nome in codice di Vault 7, che spiegavano come la Central Intelligence Agency è in grado di spiare le persone attraverso pc, smartphone, smart tv e browser web.
Chelsea Manning non è in realtà imputata in questo processo su Wikileaks.
Marina Lanzone