“White savior complex”, o “complesso del salvatore bianco”, è un atteggiamento che traveste il narcisismo da volontariato e che ha come protagonisti l’uomo bianco e la sua megalomania. Non a caso è spesso associato al “Complesso del Messia”. Le sue origini sono lontane e i suoi effetti non portano a nulla di buono.
Aiutare il prossimo
I volti del volontariato sono molteplici e sfaccettati e le motivazioni che ne stanno alla base possono essere le più disparate. C’è chi fa volontariato per senso civico, chi per dovere morale, chi per fede, chi per mettere le proprie competenze al servizio di chi ne ha bisogno. Chi lo fa nella propria cittadina di provincia, chi si arruola in associazioni internazionali e chi parte da solo per conoscere nuove porzioni di mondo.
Chi fa volontariato, di qualsiasi tipo esso sia, solitamente per modestia tace. Un po’ come andare a donare il sangue: non si sbandiera ai quattro venti che si sta facendo del bene, lo si fa e basta. Dall’altro lato, fare volontariato è sempre visto come un gesto nobile che rende ammirevole chi lo compie.
Il “White savior complex”
Un fenomeno che, però, mascherandosi da volontariato, volontariato non è, è il cosiddetto “white savior complex” (il complesso del salvatore bianco). Questo particolare tipo di volontariato è riferito a una persona tipicamente bianca/occidentale che offre il suo aiuto a persone non bianche nel contesto degli aiuti umanitari e/o missionari e che lo fa per motivazioni narcisistiche, consce o inconsce che siano.
Per intenderci, è quel fenomeno per il quale un europeo va a fare un campo di volontariato in Tanzania per portarsi a casa una galleria fotografica di tramonti africani e selfie con bambini sorridenti corredati da #bambinibellissimi e #ricordatidisorridere per dire al mondo quanto è bravo.
In un’epoca in cui conta l’apparenza più che la sostanza, è normale che anche il volontariato diventi un modo per mostrare il meglio di sé.
Il “white savior complex” si fonda sul presupposto che il bianco della situazione sia, indipendentemente da ogni qualsivoglia parametro oggettivo, superiore alla popolazione non bianca che va ad “aiutare” per competenze, capacità, risorse economiche, intelligenza, bellezza e simpatia.
Il “complesso del salvatore bianco” si fonda sul presupposto che la popolazione non bianca che si va ad aiutare deve essere guidata verso l’emancipazione, la pace, la libertà, la democrazia o quello che si vuole, dall’uomo bianco che, solo in virtù del suo pallore, si crede dio sceso in terra.
Un po’ di storia
Il “white savior complex” ha radici lontane. È un discendente dell’antico “fardello dell’uomo bianco” di matrice colonialista.
La dicitura “fardello dell’uomo bianco” si deve al buon Rudyard Kipling, quello del Libro della giungla, che, per inciso, di orsacchiotti canterini di sapore disneyano aveva ben poco. Comunque sia, era il 1899 quando l’autore britannico scrisse una poesia intitolata proprio “The white man’s burden” (Il fardello dell’uomo bianco) e che, guarda caso, venne assunta a inno del colonialismo britannico e non solo.
In sostanza, “il fardello dell’uomo bianco”, consisteva (e consiste), nella missione civilizzatrice delle popolazioni colonizzate ritenute, sulla base di superficiali stereotipi, inferiori alle potenze colonizzatrici. L’uomo bianco, quindi, si autoinveste della carica di messia (minuscolo d’obbligo) e decide di imporre ai popoli che conquista la sua cultura, la sua tecnologia, la sua religione, la sua economia, la sua politica, la sua burocrazia, la sua supremazia e il suo razzismo.
Non è un caso che il “white savior complex “sia spesso associato al “Complesso del Messia” (anche detto Complesso di Cristo o Sindrome del salvatore). Senza scendere nei meandri psichiatrici di questo stato mentale, basti sapere che si riferisce a quell’atteggiamento di chi crede di essere responsabile di salvare o assistere altre persone indipendentemente dal fatto che queste ne abbiano effettivamente bisogno.
“Il fardello dell’uomo bianco”, in realtà, anche se non lo si chiamava così, è la base che ha spinto gli occidentali a conquistare il mondo sin dall’epoca rinascimentale. Il colonialismo spagnolo e portoghese prima, quello francese e inglese dopo, fino ad arrivare a quello statunitense, si basano tutti sul presupposto di esportare la civiltà occidentale in tutto il globo. Poi non è importante se lo si fa con la scusa di esportare una religione, un sistema economico o una forma politica.
I luoghi in cui si manifesta il “White savior complex”
Il complesso del salvatore bianco rischia di investire ogni sfaccettatura dell’insieme “aiuti umanitari”.
- Dal lavoro missionario, che spesso si avvale di giovani inesperti che si lanciano a titolo volontaristico sulle catastrofi dei Paesi più disagiati ma che spesso non hanno alcuna qualifica per svolgere le mansioni che svolgono (anche fosse solo costruire una scuola o un ospedale. Spoiler: anche per costruire edifici ci vuole competenza).
- Al volontariato vero e proprio, nel quale rientrano viaggi di breve durata, effetto mordi e fuggi, e che coniugano turismo e volontariato. Tendenzialmente è tutto concentrato su “quello che l’esperienza mi lascerà/mi sta lasciando/mi ha lasciato” più che sui reali benefici della comunità che si va ad “aiutare”, con una scarsa conoscenza della stessa e delle sue reali necessità.
- All’insegnamento, spesso appannaggio di istituti religiosi.
- Alla stessa adozione, che sia a distanza o meno, quando si basa sull’idea stereotipata del “così sottraggo un bambino da una situazione di povertà, criminalità, guerra, pestilenza e carestia”.
Sia chiaro: non bisogna in alcun modo far di tutta l’erba un fascio. La stragrande maggioranza di chi offre aiuti umanitari (dal costruire un pozzo a fare il medico) lo fa effettivamente per essere di aiuto e non per meri ritorni personali. Il “white savior complex”, per fortuna, è un atteggiamento che rimane limitato a una sparuta minoranza (seppur significativa).
Le conseguenze negative del “White savior complex”
Questo atteggiamento non fa altro che confermare e tramandare, rafforzandole, le convinzioni del colonialismo per cui il bianco è superiore proprio in quanto bianco e il non bianco ha bisogno del bianco per essere salvato. Ma, spoiler 2, le persone non bianche non hanno bisogno di essere salvate e, spoiler 3, se anche avessero bisogno di essere salvate di certo non avrebbero bisogno di essere salvate con la megalomania occidentale.
Con l’atteggiamento del salvatore bianco si dice “che schifo il razzismo” ma in realtà non si fa altro che essere razzisti ponendosi in atteggiamento di superiorità nei confronti di chi si sta “aiutando”.
Chi si avvale di questo atteggiamento adotta tante belle parole per sentirsi e mostrarsi migliore ma in realtà fa del becero greenwashing di sé stesso. Tutto fumo e niente arrosto. Sono esibizioni del salvatore bianco che da un lato mostra la sua superiorità al “salvato nero” e dall’altro mostra la sua bontà d’animo ed il suo eroismo in patria.
Alcune domande da porsi prima di intraprendere con entusiasmo da selfie instagrammabile viaggi di volontariato e aiuti umanitari:
- Quello che sto andando ha fare è realmente utile alla comunità? Ho le competenze necessarie per svolgere il compito che mi è richiesto? La mia presenza è davvero necessaria?
- Lo faccio con atteggiamento aperto e di uguaglianza o lo faccio solo perché, per il fatto di essere occidentale, ho un passaporto di onnipotenza?
- L’associazione con cui mi imbarco ha manie di protagonismo oppure svolge un ruolo di supporto alla popolazione locale?
- Ho un atteggiamento di curiosità/comprensione/approfondimento della cultura che sto andando a conoscere o sono accecato da pregiudizi e stereotipi che mi sussurrano nell’orecchio che sono migliore di loro solo perché nel mio Paese c’è il 5G e il cristianesimo?