Leggere I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe (1787), quando si è in piena crisi del quarto di secolo, ha un sapore particolare. Molto vicino a quello dell’ironia.
È nota la somiglianza dell’opera con un altro romanzo epistolare, di poco posteriore: Ultime lettere di Jacopo Ortis, di Ugo Foscolo (1817). «Una scopiazzatura becera del Werther» lo definì un insegnante di liceo, incline all’uso dei mezzi termini. «Almeno, nell’Ortis c’è l’impegno patriottico…» si potrebbe rispondere. Colei che scrive sarebbe tentata di votare “scheda bianca”. Però, va spezzata una lancia a favore dell’Ortis, essenzialmente per un motivo: mentre il Werther era un romanzetto giovanile (mero antipasto di capolavori come il Faust), l’Ortis è stato praticamente l’opera della vita, per Foscolo. Intendiamoci: anche Goethe rimise mano più volte al suo fittizio carteggio. Ma fu soltanto per smorzarne le punte polemiche, le imperfezioni ortografiche, le tipizzazioni troppo facili. Bisognava soprattutto de-santificare un po’ il protagonista, per fermare quella conseguenzina da nulla che furono i suicidi per emulazione.
Quanto all’Ortis… Una lingua biforcuta potrebbe dire che Foscolo se n’occupò così tanto perché non era in grado di partorire un Faust. Ci limitiamo a ripetere quello che tutti sanno: il buon Jacopo è cresciuto insieme al suo autore. Una gestazione imponente per un romanzo così breve. Catullo approverebbe.
Nemmeno a Werther si riesce a voler così male, poi. Sa mettere un pizzico d’incanto in ogni cosa che descrive. È un disegnatore sensibilissimo, per il quale nulla è banale. Però… fa colare sistematicamente a picco ogni aspetto solido della propria vita. Perde il lavoro per futili beghe e malinteso amor proprio; si lega a una graziosa colombella che vuol tenersi stretto il marito, ma non sa rinunciare allo spasimante; si spara, quando tutti gli vogliono bene e sono prontissimi a comprenderlo, purché si comporti con un minimo di buonsenso. L’unica cosa che venga da dire, di fronte al suicidio di Werther, è: Ma perché, santo cielo?!
Per Jacopo Ortis… è già tutta un’altra storia. Intanto, non è un giovanotto in villeggiatura, ma un patriota in esilio, che si sente seppellito vivo. Poi, quando s’innamora, lo fa d’una donna ben più assennata e colta di Lotte e che vive un dramma sentimentale più sostanziale. La famiglia di Teresa (la bella della situazione) si è infatti sfasciata, quando suo padre ha voluto per forza promettere la ragazza in sposa a un tale (ricchissimo e snob) Odoardo. Unica definizione possibile per costui: manichino. Va da sé che Teresa è troppo intelligente per sognarsi d’amarlo e lui è troppo fossile per vederla più che come una moglie conveniente. Quando Ortis arriva e mette un po’ di pepe in questo teatro, Teresa lo ricambia di santa ragione e il di lei padre fa cambiare cortesemente aria al giovanotto. Tirannide nella vita pubblica e tirannide nella vita privata, insomma. Non certo una bella posizione, per il povero Jacopo. Gli resta la consolatio philosophiae, che pratica estesamente nelle celeberrime lettere. Però, quando arriva l’autopugnalamento finale, stavolta, nessuno può dire che la mossa sia sproporzionata alla situazione. Né è lecito accusare la sventurata Teresa di civetteria o indecisione.
Certo, se Werther era un nullafacente pieno di stile, Ortis ha un ego leggermente gigantesco. E ha un debole per i superuomini: legge continuamente le Vite parallele di Plutarco e visita quei sepolcri illustri che facevano la delizia del suo padre letterario. Sospira sui versi di Dante e di Petrarca –laddove Werther preferiva Omero e Ossian. Il patriota si vede anche dalla biblioteca.
Sorvoliamo sulle questioni più piccanti –insomma, Werther, con Lotte, rimane un fanciullone ingenuo, mentre Ortis si dimostra creatura di un esperto mandrillo. Davanti alle sue descrizioni di Teresa, più volte, si arrossisce sul serio –ma con bon ton.
In conclusione, alla domanda “Qual è il migliore?”, lasciamo cadere la risposta. Piuttosto, troviamo che i due beneamati romanzi epistolari mostrino due modi in cui un autore può “scrivere col sangue”. La prima è riversare in un personaggio i propri bollori giovanili (a rischio e pericolo!); oppure, concentrare in una piccola mole cartacea una vita di pensieri, viaggi, amori, lotte. In nessun caso, autore e lettore escono indenni dall’operazione. Decidere di che morte morire –anche solo nella finzione letteraria – è sempre un’ardua sentenza.
Erica Gazzoldi