Trentacinque anni fa uscì “We Are The World“. Balzò subito in testa alle classifiche di vendita in tutto il mondo e infranse il record dell’epoca, con 20 milioni di copie vendute. La cantavano gli U.S.A.(United Support Artist) for Africa: un consesso di artisti musicali, quasi tutti statunitensi. La canzone ebbe un successo strepitoso. Fu ripresa più volte e, negli anni, è stata cantata dal vivo in diverse occasioni speciali. Il video, con tutte le star che cantano insieme il coro “We are the world/we are the childrend”, è uno dei più iconici degli anni ’80. Il progetto, ideato dal musicista Harry Belafonte, raccolse oltre 100 milioni di dollari, che furono destinati dalla U.S.A. for Africa Foundation ai paesi africani in difficoltà e, principalmente, all’Etiopia.
Ma come nacquero l’idea e la canzone? E cosa resta, trentacinque anni dopo, di quell’iniziativa?
Trentacinque anni fa…
Era la notte del 28 gennaio 1985.
L’Italia stava riprendendosi dalla morsa del gelo che aveva investito tutta l’Europa. Dieci giorni prima, sul nord Italia, si era abbattuta quella che fu definita la “nevicata del secolo”. In quei giorni nevicò anche a Genova e Napoli. Persino Cagliari fu imbiancata. I temerari che in quelle sere invernali si avventuravano fuori per andare a ballare, si scatenavano sulle note di “Girls Just Wanna Have Fun” o si strusciavano su quelle di “Purple Rain”.
Quattromila chilometri più a sud, paradossalmente, la siccità non dava tregua all’Etiopia. Il governo militare, che aveva deposto qualche anno prima l’Imperatore Hailé Selassié, non trovava soluzioni efficaci per risolvere la crisi. O, forse, non le cercava neppure, incastrato tra i giochi di potere della Guerra Fredda e preoccupato di non prestare il fianco alle milizie ribelli. La popolazione etiope, intanto, moriva di fame.
Tutto in una notte
Intanto a Hollywood, come sempre, era una serata piacevole. Cindy Lauper camminava tenendo sotto braccio il trofeo dell’American Music Awards per la miglior artista pop. Per il premio del miglior album fu una bella lotta: alla fine la spuntò Prince, superando “Thriller” di Michael Jackson, che si rifarà abbondantemente battendo i record di vendita di tutti i tempi. Il miglior video musicale andò invece a “All Night Long” di Lionel Richie: il balletto scatenato tra le case colorate di cartapesta non aveva rivali in partenza.
Poco lontano da dove si svolse la premiazione, c’erano gli gli studi di registrazione A&M. Stranamente aperti, vista l’ora. A fare gli onori di casa, c’erano proprio Lionel Richie e Michael Jackson, insieme al produttore Quincy Jones e al musicista Harry Belafonte. Uno ad uno, arrivarono tutti gli altri. Quarantacinque cantanti in tutto. Alle 8 del mattino la canzone era pronta. “We are the World” nacque così, in una sola notte, dopo una gestazione durata meno di dieci giorni.
Harry Belafonte come Bob Gendolf
Più o meno, le cose andarono in questo modo: Harry Belafonte, musicista di Harlem che nel 1956 aveva raggiunto il successo con l’album Calypso – il primo album a vendere più di un milione di copie – nel dicembre del 1984 decide di seguire le orme di Bob Gendolf. L’artista britannico, con il supergruppo Band Aid, aveva da poco raccolto 1 milione di dollari. Che furono donati in beneficenza per le popolazioni africane colpite dalla carestia. Insomma – pensa Harry in quei giorni– possibile che qui negli Stati Uniti invece non si mobiliti nessuno? Nessun cantante afroamericano vuole dare il suo contributo per aiutare l’Africa? Belafonte decide di darsi da fare in prima persona. Chiama Ken Kragen, il suo produttore e manager. Il quale gli suggerisce di fare esattamente alla maniera di Gendolf: coinvolgendo altri artisti, stavolta americani.
Le star del momento
Harry è d’accordo, e i due si mettono in contatto con Lionel Richie, che è il cantante del momento. Richie propone di coinvolgere l’amico Quincy Jones, che è anche il produttore di Michael Jackson. I due avevano appena lanciato “Thriller” ed erano in perfetta sintonia. Quincy chiama Jackson. E Michael aderisce subito, con entusiasmo, all’idea di Belafonte. Jackson e Richie scrivono “We Are The World” in due soli giorni. Dopodiché, insieme a Belafonte e a Jones, stilano la lista di cantanti da invitare. Il 22 gennaio la traccia audio, con le voci di Lionel e Michael, è pronta. Il 24 la demo viene inviata ai cantanti che hanno aderito al progetto, insieme alla raccomandazione di non divulgare nessuna informazione in proposito.
Gli U.S.A. For Africa
La cosa più difficile da organizzare è la logistica: come si fa a portare così tante star – piene di impegni – in uno studio di registrazione nello stesso giorno? Possibilmente, senza dare troppo nell’occhio. I produttori decisero che il miglior modo era organizzare una session “notturna” ad Hollywood. E così nacque “We Are The World”. Ray Charles, Bob Dylan, Michael Jackson, Billy Joel, Cindy Lauper. E poi Willie Nelson, Diana Ross, Paul Simon, Bruce Springsteen, Stevie Wonder, e il Blues Brother Dan Aykroyd. Infine, con la sua voce graffiante e inconfondibile, ecco Tina Turner che in quei mesi imperversa in tutte le radio con “What’s Love Got to Do With It”. Ed altri ancora: in tutto cantarono in quarantacinque. La Columbia si accollò tutti i costi di produzione e distribuzione. Il brano vendette più di 20 milioni di copie. La canzone e l’album omonimo, l’anno successivo, vinsero i Grammy Awards. In tutto, più di 100 milioni di dollari andarono in beneficienza alla popolazione etiope.
Le immancabili polemiche
Qualche polemica non mancò. I soldi raccolti furono spesi bene? Andarono direttamente al governo etiope? E gli artisti che prestarono volto e voce all’iniziativa, lo fecero tutti per generosità o anche per il ritorno di immagine?
D’altra parte, in quegli anni i governi occidentali, pur coscienti della situazione gravissima, evitavano di mandare aiuti di qualunque genere alla giunta militare etiope, troppo vicina all’Unione Sovietica. La guerra civile infuriava e la giunta militare spendeva – ovviamente – gran parte dei suoi soldi per combattere i guerriglieri. I quali, as usual, erano appoggiati dagli Stati Uniti. I “piani di ricollocamento” che avrebbero dovuto salvare le popolazioni più colpite, causarono più problemi di quelli che risolsero. A causa della carestia morirono più di un milione di etiopi. Almeno quegli artisti si mossero, fecero qualcosa. E “We Are The World” salvò certamente parecchie vite.
We Are The World 25 For Haiti
Venticinque anni dopo, nel 2010, 85 artisti internazionali ripresero la canzone per un’iniziativa simile. Nacque “We Are The World 25 for Haiti”. L’iniziativa la prese direttamente Lionel Richie, con Quincy Jones che si occupò ancora una volta della produzione. L’edizione del venticinquennale non ebbe lo stesso successo della prima edizione. Ricevette pure parecchie critiche negative, dal punto di vista musicale. Ma poco importa. La vendita della canzone contribuì alla raccolta fondi per aiutare la popolazione di Haiti, colpita da un terrificante terremoto. Michael Jackson cantò anche questa volta, sebbene post-mortem: alcune parti del materiale registrato nel 1985 furono inserite nella nuova incisione, per omaggiare quello che era stato uno dei suoi principali ideatori, scomparso l’anno precedente. Resta quella per Haiti, per ora, l’ultima versione ufficiale di “We Are The World”.
Quel che resta di We Are The World
Una delle critiche maggiori che furono mosse all’epoca fu che, in una canzone destinata a raccogliere fondi per i paesi africani, non si faceva affatto menzione dell’Africa. Tutto sommato, con il senno di poi, fu una critica pretestuosa: il messaggio della canzone voleva essere un senza confini, e il fatto che il brano sia stato riutilizzato in altre occasioni, dimostra che Richie e Jackson ci videro giusto. Magari non furono sempre ben utilizzati, ma i fondi raccolti aiutarono sicuramente molte persone, in Etiopia prima e ad Haiti poi. Però, al di là dei fondi raccolti e del loro utilizzo, il merito più grande dell’iniziativa fu forse un altro. “We Are The World” aprì uno squarcio nell’opinione pubblica, richiamando l’attenzione sul problema della fame nei paesi dell’Africa subsahariana. Anche a voler tacciare l’iniziativa di buonismo, fu un successo: per i fondi raccolti, per quanti artisti coinvolse, per l’impressione che destò nell’opinione pubblica mondiale.
Ed ora?
Oggi in Etiopia si continua a stare male. Nel 2011 il paese fu colpito di nuovo dalla siccità, la peggiore degli ultimi 60 anni. Dopo le elezioni del 2015 ci sono stati numerosi e sanguinosi disordini. Tra il 2016 e il 2017, anche a causa del fenomeno climatico chiamato “El Niño” c’è stata un’altra disastrosa carestia, peggiorata pure dalla guerra in Somalia e dai mancati aiuti governativi. La presidentessa Zeudè, prima donna al governo dell’Etiopia (e attualmente unica a capo di un governo in Africa), non ha un compito facile. È notizia di questi giorni, l’invasione di locuste – quasi una piaga biblica – che sta devastando i raccolti.
Ad Haiti, dieci anni dopo il terremoto, se la passano, se possibile, ancora peggio. Dopo il terremoto del 2010, epidemie e uragani, abusi e malaffare e crisi di governo hanno reso la situazione insostenibile per la popolazione.
E quante altre situazioni tragiche vi vengono in mente, nelle quali qualche aiuto – al netto delle inettitudini e del disinteresse dei governi – sarebbe vitale? Le immagini, le notizie e le canzoni non colpiscono più l’opinione pubblica come trentacinque anni fa. E nemmeno come dieci anni fa. Basterebbe a scuoterci un’altra “We Are The World“? Qualcuno prenderà l’iniziativa per salvare qualche vita ancora? E quanti fondi raccoglierebbe?
In un’intervista Richie disse che “We Are The World” segnò ‘il momento in cui diventò cittadino del mondo’. Forse, allora, la domanda più importante che dovremmo farci è questa: potremo mai, finalmente e definitivamente, convincerci – tutti quanti e per davvero – che we are the world?
Simone Sciutteri