Il privilegio occidentale sul monopolio del “Waste colonialism”

Il "Waste colonialism" è l'ennesimo privilegio occidentale.

L’economia dei Paesi occidentali è caratterizzata da pratiche di esternalizzazione che riguardano non solo i processi produttivi trasferiti in Paesi più poveri, ma interessano anche lo smaltimento di ingenti quantità di rifiuti. Le conseguenze risultano nocive e dannose, sia per l’uomo sia per l’ambiente naturale.

Il termine “Waste colonialism”, coniato nel 1989, viene utilizzato per riferirsi alla sottomissione di un insieme di persone nella loro patria da parte di un altro gruppo di individui che vivono fuori dai confini di tale nazione.

Con la “Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali” rilasciata dall’Onu nel 1960, si dichiarò l’obbligo di cessare ogni forma e manifestazione del colonialismo, fenomeno nato a partire dal XV sec. quando le nazioni europee iniziarono a conquistare e sfruttare varie zone del mondo.

Anche se questo documento può essere considerato come una fine definitiva del colonialismo, in realtà questa pratica non ha mai smesso di esistere nelle radici delle economie occidentali.

Infatti, attualmente i Paesi colonizzati  possono definirsi indipendenti, ma non sono ancora riusciti a svincolarsi definitivamente dalle potenze coloniali.

I fondamenti del “Waste colonialism”: impoverimento e sfruttamento dei Paesi colonizzati

La sovrapproduzione occidentale e il consumo estremo di beni rappresentano il fulcro dell’ascesa del “Waste colonialism”. Gli enormi scarti prodotti dalla produzione industriale vengono esportati nei Paesi più poveri, dove vanno a formare delle vere e proprie discariche.

I governi dei Paesi interessati hanno accettato tali pratiche perché convinti che questo processo avrebbe portato occupazione. In realtà, l’unica cosa che sviluppa è una distrazione generale rispetto alla ricerca di soluzioni valide per risanare il problema della disoccupazione.

L’impatto di questo fenomeno sui Paesi del Sud del mondo è fortemente negativo, in quanto, come già successo nell’era coloniale, i vantaggi derivati da queste politiche economiche sono decisamente inferiori rispetto ai problemi che nascono dall’attuazione di tali processi produttivi.

Infatti, le persone vengono introdotte in un sistema di lavori forzati, indispensabile per ottimizzare un commercio globale creato per favorire l’arricchimento dei Paesi sviluppati.

Nel mentre, i Paesi più poveri sono costretti a mantenere in funzione le industrie estrattive e inquinanti, fondamentali per la riuscita di questa catena di produzione.

Plastica e abbigliamento rappresentano la percentuale più alta di export dei Paesi occidentali

La catalogazione dei rifiuti presenti nei Paesi bersaglio dello smaltimento occidentale, mostra che le maggiori percentuali di export sono rappresentate da plastica e abbigliamento, ai quali si aggiungono anche grandi quantità di rifiuti elettronici.

L’ascesa della Fast Fashion

L’ascesa del Fast Fashion ha prodotto ingenti quantità di scarto che vanno ad infierire sullo smaltimento di rifiuti di ogni nazione occidentale.




Questo fenomeno, basato su un modello di business che produce rapidamente capi di abbigliamento economici utilizzando materiali di scarsa qualità, ha scatenato una mania di consumo eccessivo sopratutto nei Paesi del Nord del mondo. Ciò va a discapito dei Paesi più poveri, sia per quanto riguarda lo smaltimento sia per i rischi che la produzione di tali elementi comporta.

Solamente il 10%-30% dei capi di abbigliamento che vengono buttati o donati, viene realmente rivenduto e/o riciclato. Mentre il restante 70%, viene spedito nel Sud del mondo.

Ad esempio, degli indumenti che arrivano in Kenya e Ghana, solamente una piccola parte viene rivenduta e riadoperata. Quasi il 50% dei capi, infatti, risultano inutilizzabili a causa del clima o perché danneggiati.

Secondo una ricerca, su 900 milioni di indumenti esportati in Kenya, 450 milioni risultano essere rifiuti, che vengono bruciati o depositati nelle discariche. Le stime dichiarano che ogni secondo un camion colmo di tessuti di scarto viene svuotato in una discarica o il suo contenuto viene incendiato.

L’export della plastica

Nel 2022, l’Unione europea ha esportato 1,1 milioni di tonnellate di rifiuti in paesi terzi.

Le destinazioni variano e non riguardano solo Paesi africani. Infatti, del totale dei rifiuti di plastica che escono dall’Ue ogni giorno, il 31% arriva in Turchia, il 13% in Indonesia, il 16% in Malesia e il 9% in Vietnam.

Il problema principale dello smaltimento della plastica sorge nel momento in cui anche i Paesi bersaglio hanno  dei programmi di smaltimento non sufficienti per gestire tali quantità di rifiuti.

In questo caso, sarebbe necessario un intervento dei governi, sia locali sia internazionali, per regolare con estrema attenzione la spedizione dei rifiuti verso luoghi che riescono ad occuparsi di tutte le importazioni previste.

Gli effetti del “Waste colonialism”: danni ambientali e discariche illegali

Come risulta dalle ricerche effettuate da Greenpeace, i rifiuti che non vengono riciclati causano enormi problemi all’ambiente.

Ciò si verifica soprattutto nei pressi delle discariche illegali. Qui, concentrazioni eccessive di sostanze nocive e tossine provenienti dalla combustione dei rifiuti, vanno ad influire sull’inquinamento del suolo e dell’acqua.

Le problematiche alla base delle discariche illecite derivano dall’esistenza di esportazioni illegali che vanno ad aggiungersi a quelle legalizzate e controllate dagli Stati interessati.

I rifiuti che vengono esportati illegalmente sono difficilmente rintracciabili. L’export illegale ha subito recentemente un forte aumento, sopratutto da quando la Cina ha introdotto delle restrizioni sull’importazione di rifiuti di plastica.

La legislazione in vigore che regola le esportazioni di rifiuti

Firmata da 180 Paesi, la “Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e del loro smaltimento” regola l’esportazione dei rifiuti a livello internazionale.

Dal 1° gennaio 2021, l’Ue ha adottato delle regolamentazioni che controllano le spedizioni di rifiuti europei. In sintesi, si proibisce e si limita l’esportazione di rifiuti (soprattutto quelli contenenti plastiche) in Paesi che non sono membri dell’Unione o dell’OCSE.

Esistono, però, delle eccezioni che riguardano l’esportazione verso zone dell’OCSE, dove sono tuttora consentite le spedizioni. Un esempio è l’export in Turchia.

Ovviamente, queste normative non sono sufficienti per risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti a livello internazionale.

È necessaria, quindi, una modifica della legislazione. In merito a ciò, a dicembre 2022 l’Unione europea fatto un piccolo passo in avanti. Il Parlamento europeo si è dichiarato a favore di un divieto generale dell’esportazione di rifiuti di plastica verso Paesi terzi.

Ora, rimane da capire come i singoli stati dell’Unione europea metteranno in atto nuove politiche per la riorganizzazione dello smaltimento e dell’export di rifiuti.

Andrea Montini

 

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