Le elezioni in Brasile dell’ottobre 2022 per il presidente della Repubblica federale e il Congresso nazionale, hanno registrato un’affluenza di circa l’80%. Il mese prima, in Italia, le politiche hanno richiamato al voto solo il 63.91% degli aventi diritto. La discrepanza tra astensionismi è chiara, meno conosciuta ne è una variabile: quello che per noi è un dovere civico per i brasiliani è un “voto obbligatorio”
Chi non vota in Brasile è sottoposto ad una multa pecuniaria, questa irrisoria, corrispondente a circa 70 centesimi in euro. Il deterrente più dissuadente è rappresentato però dalle conseguenze amministrative di una mancata risposta al voto per tre volte consecutive. È proprio questo punto che permette la definizione di “voto obbligatorio” in quanto le sanzioni previste sono diverse e di disparata severità.
Dal perdere il diritto a candidarsi nel settore pubblico al vedersi rifiutato il rinnovamento di passaporto e carta d’identità, dall’impossibilità di ricevere prestiti da banche legate allo stato a quella di iscriversi a scuole e università statali. Concreti ostacoli di partecipazione alla vita pubblica che determinano e producono emarginazione.
Una sorta di marginalizzazione non troppo sconosciuta agli italiani
Se ad oggi votare per i nostri rappresentanti è “dovere” unicamente in senso etico e morale come prescritto dall’art.48 della Costituzione, fino a circa trent’anni fa sussistevano, in maniera simbolica e scarsamente applicata, degli effetti giuridici per gli inadempienti.
Ripercussioni dettate dal dpr n.361 del marzo 1957. Per l’articolo 4 e 115 dello stesso:
«L’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese[…] L’elettore che non abbia esercitato il diritto di voto, deve darne giustificazione al sindaco […]. L’elenco di coloro che si astengono dal voto (…)senza giustificato motivo è esposto per la durata di un mese nell’albo comunale. […] Per il periodo di cinque anni la menzione ‘non ha votato’ è iscritta nei certificati di buona condotta».
L’abrogazione nel 1993 del decreto spogliò poi il gesto civico dall’abito dell’imposizione per restituirgli l’eleganza di un diritto, anche e soprattutto, liberamente non esercitabile.
Di tale libertà di scelta nel medesimo contesto è privata, secondo legge, la popolazione di circa 30 paesi nel mondo, tuttavia in molti di essi prevale la formalità.
Tra i paesi europei rientrano Grecia, Belgio e Lussemburgo. Ciononostante solo nell’ultimo il sistema è ancora effettivamente in vigore e rispettato.
Anche per l’Australia dal 1924 la violazione della norma sulla partecipazione politica comporta il pagamento di una multa di soli 20 dollari australiani (circa 13 euro) ma vi è persino la possibilità di doversi presentare davanti a un giudice e rischiare il carcere.
Il caso della Corea del Nord resta invece il più singolare sul piano della mancanza di libertà: obbligati a recarsi alle urne sono tutti i cittadini con più di 17 anni, i quali troveranno nella scheda il nome di un unico candidato. In caso si voglia esprimere contrarietà questo nome dev’essere sbarrato con un’apposita penna rossa sotto gli occhi di ufficiali elettorali oppure, in altri seggi, viene posizionata un’urna ad hoc per voti contrari. Poco sorprendente è dunque un’affluenza media del 100% o l’analogo consenso elettorale. Le elezioni sono totalmente svuotate di significato e valore per divenire mero censimento ufficiale.
La certezza che il voto obbligatorio assicuri un’ampia partecipazione dei cittadini alle elezioni è intoccabile, ma quanto le stesse mantengono l’essenza democratica?
Maggiore affluenza è maggiore legittimità politica, ma trascurare le modalità della prima porta sempre a un eguale sacrificio nella seconda. Il fine giustifica i mezzi, è necessario però non trascurare l’interesse dei cittadini per la propria politica, ciò che al contrario deve ricevere costanti stimoli.
In tal senso, la sanzione è la freccia aguzza che manca sempre di centrare l’obiettivo.
La mira, è troppo bassa.