Volontari nel mondo: storie di quelli che li “aiutano a casa loro”

Volontari nel mondo: storie di quelli che li “aiutano a casa loro”

Esistono persone capaci di ascoltare la propria voce interiore, quel sottile e fragile suono d’amore che li porterà a diventare i nuovi volontari nel mondo. Sono donne e uomini di ogni età ed istruzione, spinti da un forte senso di altruismo e di gioia nel donarsi al prossimo.

Non sono angeli o eroi, ma semplicemente esseri umani che hanno riscoperto la bellezza della semplicità: un sorriso, una carezza, un qualsiasi gesto di affetto capace di riscaldare i cuori di coloro che vivono, ancora oggi, in situazioni di estrema povertà.

I volontari nel mondo non chiedono gloria o ovazione, raggiungono i paesi poveri al fine di aiutare i bisognosi “ a casa loro”; nonostante questo, c’è chi è riuscito a denigrarli, insultarli ed ostacolarli.

Nessuno ha chiesto loro di lasciare le famiglie e gli affetti più cari, è stata una libera scelta spinta dall’entusiasmo di fare qualcosa di concreto, fare del bene agli altri senza dover per forza ricevere qualcosa in cambio.

Partire per un paese straniero come la Siria, il Kenya, la Nigeria o le Filippine, distanti chilometri dalla propria zona natia, non è una scelta presa a cuor leggero. Ci si mette in viaggio consapevoli di essere parte di un’organizzazione pronta a curare ogni dettaglio di quel percorso e di ogni spostamento che il volontario effettua una volta arrivato a destinazione.




Certo, non tutte le persone che partono hanno questo scopo, ma chi siamo noi per giudicare? Chi siamo noi per affermare con assoluta certezza che, il volontario in questione, non abbia nessuna voglia di aiutare il prossimo, ma che semplicemente voglia alimentare la propria smania di altruismo?

In questi giorni abbiamo assistito ad una vera e propria guerra all’insulto più originale, nei confronti di Silvia Romano, la cooperante italiana liberata dopo 18 mesi di prigionia in Africa. Nessuno la conosceva, eppure è stato facile etichettarla come “traditrice della patria”.

La stessa sorte è toccata a Simona Pari e Simona Torretta, cooperanti in Iraq, rapite nel 2004 o Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, volontarie rapite in Siria nel 2014, liberate un anno dopo.

Di questi volontari nel mondo si è detto molto, forse troppo, ma perché nessuno ha parlato del bresciano, rapito al confine tra Siria e Turchia nel 2016?

Egli venne accusato di rapina e ricettazione, compiuta poco prima di sparire in Medio Oriente e, per questo, divenuto latitante per la giustizia italiana. Fortunatamente fu liberato nel 2019 dal “governo di salvezza”, gruppo antigovernativo della zona di Idlib, in Siria, eppure su di lui nessuno ha osato aprire bocca.

Sono stati molti i turisti rapiti e lo Stato Italiano ha dovuto sborsare soldi, nonostante questo, nei confronti di coloro che partono come volontari, lo stesso trattamento economico destinato per la loro liberazione, viene considerato ingiusto.

Viviamo in un paese in cui il disonesto viene idolatrato, mentre continua a rubare soldi al cittadino, attraverso le sue false promesse e si impegna affinché la nostra attenzione sia costantemente rivolta nei confronti di quelle persone vittime di un rapimento. Esseri umani che meritavano di essere salvati, ma che sono “costati cari”.





I volontari come Silvia Romano sono davvero molti: da Federica Sartori, infermiera per Emergency in Sierra Leone, a Mariarita Ceccaroni, professionista per Save the Children, partita per la prima volta come volontaria a soli 22 anni.

Chi si mette in gioco per salvare delle vite umane non è una persona irresponsabile e coloro che sono disposti addirittura ad aiutarli nel loro paese, dovrebbero ricevere un sostegno morale da parte nostra, poiché non si limitano alle parole, ma ai fatti.

Non sono migliori di noi, non hanno i Superpoteri, i volontari nel mondo alimentano la luce della speranza, quella che credevamo di aver acceso nuovamente in un periodo di pandemia che ci ha portato via parenti, amici, amori. Questo enorme senso di disperazione, che per la prima volta ci ha reso simili ed allo stesso tempo fragili, avrebbe dovuto unirci e renderci più resilienti ed empatici.

Non ha alcuna importanza il luogo in cui si cerca di assistere il malato, come non è importante la religione o il colore della pelle di colui che ci troviamo davanti. Tendere la mano ed offrire il nostro aiuto è un dovere, ed ora che riapriranno le chiese, forse, saremo pronti a dimostrarlo attraverso la confessione dei nostri peccati.

Una volta che ci ritroveremo in quel luogo sacro, proveremo a rispondere ad una domanda, la stessa scritta da Fabrizio Caramagna e dedicata ai volontari nel mondo:

Non chiederti: “chi sono gli altri per essere aiutati?”. Chiediti: “Chi sono io per non aiutarli? “.

 

 

Silvia Morreale

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