Voi femministe…

Di Isabella Rosa Pivot


Forse a causa del comune suffisso con “maschilismo”; probabilmente per colpa di alcune estremizzazioni – che, a pensarci, risultano inizialmente necessarie in qualsiasi rivoluzione -; oppure proprio come risposta del sistema patriarcale, che ridicolizza per indebolire.
Rimane il fatto che ancora all’alba del 2021, il femminismo assume per molti connotazioni negative assimilabili a quelle che aveva la stregoneria nel Medioevo.
Per troppi, le “femministe” appaiono come streghe bitorzolute ed acide, donne che cercano di assoggettare l’uomo e calpestano la delicatezza femminea, che cresce già a stento nel prato sociale della contemporaneità.
Perché tanto astio e tante errate convinzioni?
Il dialogo parrebbe aperto da molto ed esser nitido nelle intenzioni. Perché, dunque, ci ritroviamo ancora a spiegare che le femministe puntano ad una società più equa e non ad avvelenare uomini e bambini?

I motivi sono molti e complessi quanto gli interessi in gioco.
La verità di base è che qualunque cambiamento, sia che richieda un impegno o una rinuncia, incontra ostacoli e diffidenze. Per quanto il nostro concetto personale di tempo ci porti in evidenza molti anni nella lotta verso la parità, quello storico ci rimarca giornalmente quanto questi risultino al pari di un battito di ciglia nell’evoluzione societaria.
Basti pensare che in Danimarca, la legge che definisce “stupro” qualsiasi rapporto sessuale senza consenso, entrerà in vigore solamente a gennaio 2021; o che fino al 1965 (poco più di 50 anni fa), ad esempio, le donne in Francia non potevano neanche aprire un conto corrente da sole.
Sebbene dunque io sia la prima a patire l’insofferenza dei miei mancati diritti e a non comprendere le numerose ingiustizie che affliggono entrambi i sessi, non posso al contempo non rendermi conto che tutto ciò possa necessitare di più tempo di quello sperato per potersi concretizzare.

Tale presa di coscienza non riduce però l’urgenza manifesta di combattere la diffidenza che continua ad aleggiare attorno a questo movimento per la parità, non stancandosi mai di ribadirne ancora e ancora i principi, valori e obiettivi.
E questo, perché frasi come “io non sono femminista: voglio la parità dei sessi, non la superiorità della donna” sono all’ordine del giorno, soprattutto tra le donne; perché sono troppi gli uomini che non hanno ancora compreso che la lotta femminista difende anche i loro diritti ed interessi e non rappresenta solo un cerchio stereotipato con cui catalogare determinate donne; ma anche perché sono in tanti che non vedono le differenze ancora sussistenti. Nonostante i femminicidi in aumento infatti, gli stupri e le violenze quotidiane; le offese, le differenze salariali e sociali; i giudizi e pregiudizi, le discussioni ancora aperte su diritti come l’aborto; l’assenza di provvedimenti concreti per agevolare la maternità in un periodo storico che vede entrambi i genitori sostenitori dell’economia famigliare… V’è ancora chi sostiene che la parità sia stata già raggiunta.
Ma v’è anche chi oltre questi, ne chiede l’estinzione, additando il femminismo di un’aggressività che parrebbe lontana, appunto, dalla femminilità. Un’ira che, a detta di questi ultimi, sarebbe persino la causa di una perdita di virilità nel genere maschile. Non un aumento dell’empatia, della parità dei generi in rapporto all’apparire ed al sentire… No: la donna per costoro si sta trasformando in un essere crudele e lussurioso, mentre l’uomo sta diventando una femminuccia isterica.
Per i detentori di queste convinzioni, è tutta colpa di noi femministe se il mondo sta andando a rotoli. È colpa nostra, che un giorno ci siamo svegliate dal torpore domestico e abbiamo deciso di ribaltare la nostra “natura”.
Quante volte avete estrapolato simili concetti da commenti, articoli, pensieri e frasi fatte? Tantissime, ne sono certa. Eppure il femminismo non sta affatto rendendo l’uomo una “femminuccia”: lo sta rendendo partecipe di una realtà monopolizzata dalle donne e senza il consenso totale di queste ultime.
Perché il femminismo non è solo una lotta per i diritti delle donne: è una lotta contro le discriminazioni di genere. È una battaglia anche per quegli uomini che sentono di volere opportunità loro precluse completamente fino a qualche anno fa. Il rovescio della medaglia del maschilismo (e del sistema patriarcale) è infatti una rappresentazione negativa dell’uomo -di sesso maschile- in quanto animale.
Stupido e pigro, incapace di avere accortezze elementari nel focolaio domestico. Succube dei suoi istinti primari, non minimamente in grado di controllarsi ed avere ragionamenti compiuti una volta attivato il bisogno sessuale. Un animale che può diventare violento, perché privo di intelligenza emotiva e preda di sentimenti incontrollabili come la gelosia o la rabbia. Un genitore di serie B, presente solo parzialmente nella vita dei suoi figli in caso di separazione e non solo, anche se in alcuni casi è stato più presente della madre: ma, per il comune pensiero, non è il suo ruolo… Poiché “meno propenso”.
Una rappresentazione che è invece molto lontana dalla realtà per (fortunatamente) la maggioranza degli uomini. Una generalizzazione ed esasperazione frutto della violenza di pochi e della definizione limitante delle caratteristiche di genere.

Appare evidente come questa debba dunque diventare la prima reale battaglia da compiere, la svolta da imboccare anteriormente alla lotta verso l’equità: senza aver anzitutto smontato queste insulse premesse e i pregiudizi nei confronti del femminismo, qualsiasi rivoluzione risulterebbe, se non impossibile, perlomeno di una fatica disumana.
Se la maggioranza comprendesse davvero le motivazioni che spingono a determinate lotte ed i molteplici benefici che ne risulterebbero, il resto non potrebbe che diventare una mera conseguenza.
Viene dunque spontaneo chiedersi, giunti a questo punto: è solo colpa della diffidenza, del poco tempo, degli interessi di pochi o dei più… O forse non è tutta colpa di noi femministe, ma un poco sì?
Se forse, prese dalla giusta insofferenza e dal rancore, ci fossimo limitate ad andare in battaglia, senza prima spiegare ai soldati per cosa dovevano sguainare le spade e affiatare l’esercito?

Certo, un movimento tanto complesso, non può che vedersi suddiviso in varie articolazioni con differenti priorità in base alle necessità. Può darsi, però, che l’assenza di una direttiva univoca, chiara e lineare, abbia danneggiato in qualche modo la comunicazione.
Quella comunicazione che punta in primis a chiarire che il femminismo non è una rivendicazione unicamente femminile, una lotta per la supremazia ed il comando di una delle due parti. Ma un movimento che accoglie chiunque non si senta rappresentato dalle figure di riferimento attuali e veda la sua libertà di scelta danneggiata a favore di una parte limitata di persone.
Quella comunicazione che non si lega a un concetto, ma libera i generi dagli schemi compiuti, solo all’apparenza più semplici.
Quella comunicazione che può trasformare un “voi femministe” in un “NOI femminist*”.

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