Il lavoro è senz’altro un aspetto fondamentale nella vita di una persona. È così importante da legarsi alla nostra identità, sviluppando quella che viene definita identità lavorativa. Per rendere l’idea di quanto il lavoro possa essere importante per un individuo basti pensare a quanti si presentano dicendo prima il proprio nome e subito dopo che lavoro svolgono. È quindi auspicabile svolgere un lavoro che ci piace, considerando anche la quantità di ore che passiamo a lavorare. Quando riusciamo a svolgere il lavoro dei nostri sogni, abbiamo ascoltato la nostra vocazione lavorativa.
Non fare il lavoro dei propri sogni è terribile. Non lavorare affatto è ancora peggio.L’attuale mercato del lavoro
Non è sempre possibile fare un lavoro che ci piace. Oggi più di prima, il mercato del lavoro non garantisce tante opportunità lavorative, per cui può risultare davvero molto difficile fare il lavoro che si desidera. Molti, dunque, potrebbero essere costretti a scendere a patti con questa dura realtà. Gli autori di questa nuovissima ricerca hanno quindi cercato di capire in che modo la vocazione lavorativa possa, quindi, influire sulla nostra possibilità effettiva di trovare un impiego.
La vocazione lavorativa
Partiamo dal presupposto che esistono diversi modi di concettualizzare il proprio lavoro. Possiamo considerarlo come:
- impiego (job), in cui l’aspetto predominante è quello economico;
- carriera (career), dove ci si concentra prevalentemente sulle promozioni;
- vocazione (calling), in cui l’aspetto principale consiste nel senso di realizzazione che deriva nel fare un certo lavoro.
La sensazione di svolgere un lavoro per vocazione può essere dovuta a molti fattori. C’è chi pensa che sia il proprio destino, chi fa appello al senso del dovere, chi ancora al legame con la propria identità, ecc. La vocazione porta i lavoratori a raggiungere gli obiettivi professionali desiderati grazie a due “meta-competenze”. La prima è l’auto-consapevolezza (la chiarezza su chi si è), che permette di porsi obiettivi significativi. La seconda è l’adattabilità, cioè la capacità di cambiare per soddisfare le richieste situazionali, che permette di raggiungere i propri obiettivi nonostante le difficoltà che certe situazioni possono causare.
Il legame con l’occupabilità
L’occupabilità (employability) consiste nella capacità di ottenere (e tenersi) un lavoro. Abbiamo già esaminato questo argomento dal punto di vista delle aziende; adesso vedremo quello relativo ai lavoratori. Considerata l’attuale situazione del mercato del lavoro, l’occupabilità diventa un’importantissima carta da giocare. Gli autori hanno dunque esaminato il possibile legame tra vocazione lavorativa e occupabilità, tenendo in considerazioni altre due variabili che possono influenzare questa relazione. I risultati hanno messo in evidenza luci e ombre della vocazione.
Gli aspetti positivi: il PPD
La vocazione, in cui l’accento è posto sul fare piuttosto che sull’essere, promuoverà un atteggiamento meno passivo, gestendo più attivamente la propria carriera. Nello specifico, la vocazione promuove l’impegnarsi in comportamenti lavorativi legati all’apprendimento e allo sviluppo della propria professionalità, senza aspettare che qualcuno ci dica di farlo. Questi comportamenti fanno parte del cosiddetto Proactive Professional Development (PPD; sviluppo professionale proattivo). Questo ci consentirà di aggiornare e acquisire nuove competenze, che aumentano il nostro grado di occupabilità.
Il risvolto della medaglia: la non-flessibilità
Come già accennato, non tutti gli obiettivi per noi importanti possono essere raggiunti. Quindi, pur di lavorare, bisognerà essere più flessibili nella scelta del lavoro da cercare, reinvestendo le proprie energie in obiettivi più a portata di mano. Pena: fallimento e stagnazione che a loro volta portano a malessere psicologico e stress. Chi, però, ha una forte vocazione lavorativa sarà meno disposto a rinunciare ai propri obiettivi, finendo per sentirsi bloccati, intrappolati all’interno di questa identità lavorativa. In altre parole, non si vedono alternative. Questo porta a una condizione in cui ci si ritrova a non sviluppare alternative professionali, a perdere la flessibilità necessaria ad affrontare certe richieste lavorative e a non coltivare competenze trasversali, puntando esclusivamente su quelle che si utilizzerebbe nel lavoro dei propri sogni. Tutto ciò porta a un livello di occupabilità molto basso.
Dobbiamo smettere di sognare?
È evidente che quando si parla di vocazione lavorativa, bisogna tener presente che può declinarsi relativamente a determinate passioni o a specifiche professioni. È chiaro che se la vocazione riguarda attività più generiche, questo renderà automaticamente più flessibili. Al tempo stesso, come biasimare chi ha investito anni in duro lavoro e denaro per formarsi per svolgere una determinata professione? Però non si può nemmeno soffrire della Sindrome da Utopia ma prendere atto di come stanno le cose. La situazione è davvero molto complessa, quindi chiedo la vostra opinione. Avete realizzato i vostri sogni professionali? Cosa direste a chi si appresta a iniziare un percorso formativo molto specifico?
Davide Camarda