La figura che le famiglie si ritrovavano ad accogliere al suo arrivo in casa, in risposta ad un annuncio come bambinaia, era ben lontana dall’immaginario della tata in stile Mary Poppins che tutti sognano.
Vivian Maier era alta un metro e ottanta, imponente nonostante l’esile corporatura, e tutt’altro che accomodante nei modi. Al collo, vero e proprio organo integrante del suo essere, portava una Rolleiflex che le arrivava all’altezza dell’ombelico.
E’ proprio da quella posizione, con la macchina fotografica poggiata sul ventre, che Vivian era solita scattare le sue foto: da quella prospettiva, inquadrati dal basso verso l’alto, anche ai soggetti più umili era conferita una certa maestosità.
La sua foggia e il suo portamento, raccontavano forse più di quanto lei stessa lasciasse mai trapelare sulla sua persona. In vita si seppe solo fosse nata a New York il 1 febbraio 1926, di origini francesi, nubile e cattolica non praticante.
D’altro canto, il bagaglio di vita familiare passata che si portava dietro, custodiva ben pochi ricordi felici da condividere.
Riservata, solitaria, indipendente. Desiderava essere invisibile al mondo e scattare le sue foto indisturbata. Ma il suo aspetto insolito, incorniciato da abiti demodè, e il suo singolare modo di fare rendevano probabilmente impossibile non notarla.
A passi lunghi, agitando le braccia come “remi che fendono l’aria”, attraversava le strade di Chicago e di New York, immortalando, con mano rapida e sicura, il cambiamento sociale e culturale che animò l’America nel secondo Novecento.
A partire dagli anni 40, Vivian Maier fotografò incessantemente. Era attratta dalla vita che le scorreva davanti agli occhi, sopratutto nelle sue umane imperfezioni. Nelle sue istantanee senza tempo, sono proprio i dettagli apparentemente insignificanti ad acquisire rilevanza, mostrandoci la nuda bellezza della realtà.
Riusciva con innata maestria a catturare le sfaccettature più intime dei propri soggetti, spesso inconsapevoli di essere ritratti, immersi nelle loro occupazioni, nelle loro riflessioni.
Lascio che la mia ombra cada sulle persone e la fotografo coi gomiti sollevati. Divento parte del loro mondo senza che lo sappiano. Mi sono immersa nelle loro vite.
In forma di ombra, o di riflesso, Vivian si manifesta spesso nei suoi scatti, quasi a voler in qualche modo testimoniare la sua silenziosa presenza nel mondo, lasciare una traccia di sé a quel pubblico di estimatori che in vita, per sua volontà, non ha avuto.
Centinaia sono i negativi che mai sviluppò, venuti alla luce solo due anni prima della sua morte, nel 2007, quando l’agente immobiliare John Maloof acquisì ad un’ asta materiale confiscato per un mancato pagamento.
Scattò più di centocinquantamila fotografie, e in tutte, in qualche modo, è Vivian stessa a poter essere considerata la vera celata protagonista: consentendoci di guardare il mondo attraverso i suoi occhi, queste rivelano forse molto più della persona dietro l’obiettivo che di quelle da lei immortalate.
Ma chi fosse veramente Vivian Maier, resta in gran parte ancora oggi un affascinante mistero, che Christina Hesselholdt, mescolando abilmente biografia ed immaginazione, ha cercato di svelare, regalandoci nel suo romanzo “Vivian” edito da Chiarelettere, un ritratto quanto mai sfaccettato e interessante dell’amata street photpgrapher ante litteram e della sua arte.
Mettendo insieme le voci di chi l’ha conosciuta e gli echi evocati dai suoi scatti, frammenti di ricordi e ritagli di giornale, l’autrice cerca di ricostruire non solo la storia, ma l’ “io” più profondo di “Viv”. Portare alla luce ciò che racchiudeva l’animo della donna che non sorrideva e non guardava mai direttamente verso l’obiettivo.
La gente ama i misteri, ciò che è incompleto e oscuro esercita profonda attrazione. E io sono la Signora misteriosa, il cui passato è reciso.
Arianna Pane