Vivere, dal latino vivĕre significa condurre l’esistenza in un dato luogo, in un certo modo, in un determinato tempo; avere un inizio e una durata. Già la parola stessa è ambigua e severa.
Se vivere significa così tante regole, probabilmente si può comprendere la società odierna che non sa più come farlo.v
Se proprio volete, la mia arte sarebbe quella di vivere: ogni secondo, ogni respiro è un’opera che non viene registrata da nessuna parte, che non è né visiva né cerebrale. È una sorta di euforia costante.
Cosa significa per me vivere?
Si scambia la complessità e la profondità della vita con il semplice e abitudinario riempire il tempo a tutti i costi affinché si dia la parvenza di saper vivere più e meglio degli altri. Ma ciò che spesso ci sfugge è che il senso della vita non può essere preincartato, già esistente e non può essere universale. Va cercato tramite la meraviglia costante e inventato; ad esempio, ci si può porre delle domande: “Vivere… cosa significa per me?”.
E rispondersi con affermazioni insolite, più indagatrici e, se vogliamo, strambe: “Vivere è guardarsi allo specchio senza focalizzarti sul tuo corpo, lasciarti solamente abbandonare dal ghiaccio di quello specchio che riflette solamente un’immagine. Non sei tu, non è il tuo corpo. Solamente piccoli pezzetti di vetro che uniti riflettono qualsiasi cosa si posi su di essi. Niente più, niente meno. È comprendere che tutto ciò che ti riflette e che rifletti è mutabile, è irreale, è quasi un istante che ora è e già adesso non è più.”
La noia abbraccia la bellezza di vivere
Perché abbiamo così tanta paura di annoiarci?
Emil Cioran disse: “c’è una cosa peggiore della noia: la paura della noia” e, ancora, Bertrand Russell diceva che “una generazione che non saprà sopportare la noia diventerà necessariamente una generazione di persone meschine nelle quali ogni impulso vitale sparisce”. La noia è uno spazio in cui ogni persona può creare qualcosa, è uno spazio disinnescato dal caos del mondo in cui ci si può scoprire, guardare il mondo con occhi nuovi e abbandonarsi alla scoperta della meraviglia. L’anestesia è forse un ingrediente comune dei nostri tempi, la meraviglia é inventare costantemente la realtà pur non ignorandone alcun dettaglio.
È alzare lo sguardo, usarlo come strumento per connettere noi e gli altri. Nella noia si trovano spazi ignoti che, se solo si provasse a svegliarsi da questo intorpidimento mentale, si riuscirebbe a regalare a noi stessi il dono più bello del mondo: una propria visione delle cose.
La madeleine di Proust
“Un piacere delizioso m’aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M’aveva subito rese indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità inoffensive, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l’amore, colmandomi d’un essenza preziosa: o meglio quest’essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di considerarmi mediocre, contingente, mortale.”
Poiché la frenesia è diventata il nostro modo di vivere (distratto), Proust ci regala una prassi temporale che fonda una prolungata durata in un’epoca plasmata dalla fretta in cui tutto compensa l’arte e la socialità. Un mondo in cui tutto è conciso e facile da afferrare. Invece, il profumo delle Madeleine – questa immagine così semplice eppure così violenta- ci insegna a sederci e a riposarci. Ci dice che il tempo non è perduto, perché basta un profumo per rendere vivido un ricordo.
Ma per ascoltare questi richiami involontari, bisogna non ridursi alla mentalità in cui si crede che l’immediata presenza delle cose sia il giusto modo di vivere. A volte, ad essere costruttivo, non è il solo riempirsi di esperienze e di attività, ma il lasciarsi trasportare da odori, profumi e sensazioni per cadere in un intorpidimento che genera conoscenza e fantasia. Oserei dire sia un’esistenza poetica quella in cui ci si ascolta tanto per poi ascoltare in profondità il mondo.
Stanchi e illusi
Non sembra, ma la stanchezza è diventata il fondamento naturale delle nostre giornate. La sensazione è quella di dover necessariamente recuperare il tempo e di doverlo sfruttare. Però, ecco, non siamo Proust e scrivere un romanzo monumentale di sette volumi sulla ricerca del tempo perduto è un’impresa assai ardua. Si deve accettare che a volte qualcosa si perde.
“Finendo il prossimo anno qui, godendomi l’ansia di leggere e pensare, mentre alle mie spalle c’è sempre il tic tac che mi deride: Una Vita Sta Passando. La Mia Vita.”
Sylvia Plath rende perfettamente quest’ansia vorace che annienta poco a poco. L’ansia del non dover perdere niente, per paura di rimanere fuori dalla bolla sociale, è un meccanismo tossico. Non a caso di recente si parla di FOMO (Fear Of Missing Out): una forma di ansia sociale caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con le attività che fanno le altre persone e dalla paura di essere esclusi da eventi, esperienze e contesti sociali gratificanti.
Se non impariamo a fermarci, illusi che questa corsa folle anticipi il tempo, potremmo non solo perdere l’effettiva importanza dell’esistere, ma cadere in uno stato di cecità morale e vitale.
Byung-chul Han, a proposito, con una sola frase spiega bene il rischio che corriamo: “L’eccessivo aumento delle prestazioni porta all’infarto dell’anima”.