Il visibile e l’invisibile, fantasmi personali e di famiglia

Francesca de Carolis

Di Francesca de Carolis

 

Questa è una nota molto, molto personale. Sarà perché si avvicina il due novembre… sarà perché quando il cielo si tinge a volte di grigio, anche se c’è sole, un gatto randagio sa che dalla vita bisogna saper distillare l’invisibile, che forse questa è la via… oggi il pensiero si affolla di presenze altre…
Fantasmi. Ognuno i suoi se li porta dentro, e se li porta dietro, che quando credi di averli seminati, sono loro che ti inseguono e raggiungono. Ma non bisogna averne timore. Basta imparare a riconoscerli. A me l’aveva insegnato la mia zia Carlotta, zia madrina, che con loro aveva una certa rispettosa confidenza, e tante storie me ne ha raccontate.
Così non c’è voluto molto a riconoscerlo, il mio amico Turi, che un po’ d’anni fa se ne è andato.

Devo ammettere, all’inizio ho esitato. Tutti noi, anche i più avvezzi a parlare con il mondo di là, dinanzi a queste faccende sempre facciamo un po’ di resistenza… ma c’era un’aria troppo familiare, che mi avvitava lo stomaco, in quell’uomo che per un po’ è venuto a sedersi su una delle panchine appoggiate al bordo della bassa siepe dove la strada si allarga sulla piazza.
L’avevo notato da qualche settimana, occupava sempre la panchina di centro. Non mi era stato possibile vederne subito il viso, che aveva sempre tuffato nelle pagine di un giornale, o di un libro.

Ma non potevo non riconoscere la sua lunga barba rigata di grigio, e il suo enorme corpo chiuso in un cappottone scuro… A volte, appariva piuttosto sbrindellato e un po’ imbrattato. A volte, ben pulito e ordinato come rimesso a nuovo. Il suo silenzio e il suo tranquillo stare, raccontava comunque una certa confidenza con i luoghi e la gente del posto.
A volte si spostava dalla panchina per comparire al tavolino del bar più avanti, sulla strada. E sempre leggeva… libri, giornali soprattutto, con aria assorta e compresa, sempre a capo chino…

Ma un giorno, che la barba era forse appena appena più rifilata e aveva sollevato lo sguardo dal foglio come a fermare un pensiero che gli era nato dalla lettura, mi si è svelato il suo viso… il taglio delle labbra gentili, il profilo sottile del naso, quel leggero strizzare degli occhi miopi…
Era, giuro, proprio lui, Turi, carissimo amico del tempo che fu.
Difficile da riassumerlo, Turi. Ci vorrebbe lo spazio di un’enciclopedia.
Ecco, quello che di lui più mi stupiva era la sua capacità, immensa, di suggere la vita, mosso da un desiderio famelico di tutto, del conoscere, dell’amare, del mangiare… fregandosene, di tabù, regole e convenzioni. E tutto restituiva con la magnificenza di un signore rinascimentale, nel regalo di un infinito offrire, di un divertito narrare…

Accidenti mi sembrava non ci fosse nulla che non sapesse. Leggeva moltissimo Turi, e continuamente, come con il cibo il corpo, con i libri alimentava e gonfiava la sua conoscenza. Rido ancora al ricordo del racconto che fece un giorno dell’ansia incredula del condominio, per il solaio tremolante di una sua casa, per via dei tanti libri che ne occupavano, in mucchi e piramidi, l’intero pavimento…
Con buona pace di dietologi e medici, ho sempre avuto il sospetto che più che il cibo fossero stati la fame di vita e i libri, a rendere così imponente il suo corpo, che, aumentando aumentando, a un certo punto non ha retto più il peso di tanto peso, ed è finito costretto su una sedia a rotelle.
A qualcuno, forse ai più, quel largo signore avvolto nel cappottone nero sarà sembrato solo un barbone, uno dei tanti di passaggio.
Ma io sono sicura, e ne sono davvero felice, che invece era proprio lui, il nostro Turi, che per tornare ha scelto una panchina, luogo di libertà, dove continuare a leggere, ed ancora essere, fuori dalle costrizioni del tempo e dello spazio, rincorrendo narrazioni e pensieri. Libero dai percorsi del quotidiano che noi tutti ancora imprigionano.
Sono davvero felice che, anche se per poco, Turi si sia riaffacciato fra noi. E sono ancora sempre grata alla zia Carlotta, che mi ha insegnato a non chiudere la mente e il cuore alle strade dell’invisibile.

“Tutto ciò che è visibile deve superare se stesso, addentrandosi profondamente anche nell’invisibile. Con ciò ottiene il vero carattere sacrale e la vera chiarezza mette saldamente radice nei nessi universali”. Avrete letto, nell’I King, la sentenza del Crogiuolo ( c’è stato un tempo, ai miei tempi, che, scoperto il libro sacro cinese, s’era tutti lì spesso a consultarne le sentenze…).
Ed è proprio così. Dalla vita concreta bisogna imparare a distillare ciò che non si vede, lo spirituale, percorrere la via che dall’alto porta al basso… che fra il visibile e l’invisibile stabilisce reti di nessi…

Provate ad esercitarvi anche voi. Iniziando dai vostri fantasmi personali. Magari iniziando da quelli di famiglia. I nostri, assicurava zia Carlotta, abitavano ancora a tratti le sale del nostro vecchio palazzo. “Se fai bene attenzione”, mi disse una sera, “te ne accorgerai anche tu, del crepitare dei parati… ogni volta che qualcuno della famiglia sta per morire… sono loro che tornano, per salutare chi sta per passare dall’altra parte…”
Ripensandoci, credo che prima o poi dovrò rivestire di parati almeno qualcuna delle pareti della mia casa attuale. E’ quello che sono sicura stanno aspettando quei signori che la prima sera che sono venuta ad abitarci si sono affacciati sotto l’imbotte della porta dì ingresso, per ridere del mio stupore, e dirmi: “Sì, siamo sempre noi… ti abbiamo trovata… anzi, mai ti avevamo lasciata…”

Ah… Turi dopo qualche settimana non l’ho visto più. Ancora mi chiedo chissà quale parete avrà scelto per riattraversare le porte dello spazio e del tempo…

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