Una storia vera, leggiamo nei titoli di testa. Ancora una storia che ci racconta una violenza celata.
E noi non stentiamo a crederci.
Sto parlando di “Changeling”, un thriller americano siglato dallo spettacolare Clint Eastwood, datato 2008.
La verità è quella che Christine Collins, una bellissima quanto castissima Angelina Jolie, sa di possedere in pugno come in cuore, quella che soltanto una madre, in tali circostanze, fuori dall’ordinario, può avere.
(O forse una sorella?)
In “Changeling”, con ribaltamenti e colpi di scena destabilizzanti ma sempre ben calibrati, esploriamo torti, ragioni, che catturano a tutto tondo infangamenti e menefreghismi delle istituzioni pubbliche; le quali, al posto di proteggere l’incolumità e la vita del cittadino, si preoccupano di gettare valanghe di sterco sulla vittima, pur di mantenere immacolata la loro putrida coscienza. E un dannato distintivo impolverato.
Dove abbiamo già sentito questa storia?
Il reparto tecnico contribuisce a rendere ineccepibile la ricostruzione storica della pellicola. Ci troviamo nella Los Angeles degli anni 20; ma i richiami al giorno d’oggi sono evidenti già dal primo minuto di visione. Assistiamo ad uno sgretolamento della vita di un essere umano per mano di un corpo di polizia corrotto fino al midollo, che punta il dito in maniera unidirezionale, lavorando unicamente tenendo ben saldi i propri scopi e le “legittime” esigenze.
L’era del proibizionismo è dipinta attraverso toni cupi, le musiche sfumano in una malinconia sospesa, che ci accompagna per tutta la durata del film. Ma io non provo malinconia, affatto.
Il mondo d’oggi ripercorre i binari del passato, sostituendo i toni grigi con colori sgargianti, finti, meccanici, tipici di un palazzo scrostato, lurido, infetto da quei milioni di batteri, peculiari della cultura di massa e della sua euforia consumistica. Via libera alla finzione plastica e un poco guasta della società dell’immagine, alla strumentalizzazione femminile che profuma di Chanel n5 e quel giusto pizzico di violenza psicologica, che c’è, ma non si vede. Oggetti in serie, palazzi altissimi e senza finestre, mostre in ricordo di Andy Wahrol, e violenza, violenza, e ancora, ripetutamente, violenza.
Clint Estwood carica il film di una costante tensione che, come un virus, infetta ogni fotogramma; rende insostenibile l’idea che il male possa diffondersi anche in una vecchia casa di periferia, così come a Milano, passando da Piazza Alimonda, da Bolzaneto e dalla scuola di Diaz, da Ferrara, e da tante altre strade, piazze, piazzali.
(Stiamo ancora parlando di “Changeling”?)
Succede sempre, se incontri la divisa sbagliata. Non c’è fastidio ma un’impotente indignazione, che inizialmente lascia aperta una fioca fiammella di speranza, la quale si trasforma in breve tempo nella profonda solitudine, di fronte a chi ti sta privando di ogni possibilità di resistenza.
Dove abbiamo già sentito questa storia?
Nel profondo disagio provato nel realizzare di aver visto un film già visto. Nell’infinito fastidio che arde nel profondo, nel momento in cui mi accorgo che già conosco il finale, e la trama, seppur di ammirevole narrazione, non mi lascia interdetta.
(Stiamo ancora parlando di “Changeling”?)
No, non stento affatto a credere a quell’incredibile storia. Avete capito bene.
Il dolore che annienta ogni difesa e resistenza, una sofferenza che penetra nel profondo del cuore, per invadere la mente, non può che essere quella provocata dalla perdita di una persona cara.
Ma ora lo sappiamo. Sappiamo che esiste al mondo un dolore ancora più forte, vigliacco, sporco; che ti sputa in faccia, ti sega le gambe, calpestandoti l’anima.
E’ il dolore causato dal fango, da mille menzogne spietate, sputate su un corpo freddo ed inerme. Anche dopo la morte. Quando la morte non è una conseguenza della vita, ma dovuta a cause non certamente naturali, allora si, il dolore diventa insostenibile, come un macigno che ti blocca il respiro, e si scaglia ancora una volta su chi, purtroppo, non può più difendersi.
Dove abbiamo già sentito questa storia?
Avete capito bene, stiamo parlando, ancora una volta, di Stefano Cucchi.
Una storia amara, vergognosa, inaccettabile. Una bella favoletta, dove per coprire una gigantesca macchia di sangue le istituzioni stesse hanno gettato vagonate di fango, fin dal primo momento, senza alcuna vergogna.
E’ la storia di un Paese, il nostro, che di strada ne deve ancora fare parecchia per considerarsi davvero CIVILE.
E’ una storia fotocopiata da tante altre, che incrocia la vita di chi subisce in prima persona, sul proprio corpo, sulla propria anima, la condizione violenta di sottomissione fisica e psicologica.
Solitudine ed impotenza. Violenza, sottomissione e tortura.
Tanti i nomi che, come quello di Stefano Cucchi, sono incisi in una lapide di pietra, vittime di vergognosi occultamenti che insultano ancora una volta la verità. Una verità soffocata dalla plastificata finzione, dalla moda e dall’abitudine di fingerci ciò che non siamo. E ad insultarla abusano del ruolo istituzionale che ricoprono.
_Benvenuti nell’epoca delle commedie e dei commedianti, burattini e burattinai, protagonisti indiscussi di questo fantomatico teatrino dell’assurdo. Una festa in maschera folleggiante, dove proliferano bugie, menzogne e plastica bruciata.
Abbasserò un pochino la maschera, solo per voi, per potervi offrire il mio sguardo, nel momento in cui vi accompagno nella foresta più fitta e pericolosa di questa società, dominata dall’amore sporco.
_Benvenuti nell’età dell’invasamento e della fissazione, dove istituzioni, istruzione, ceto sociale, non bastano più ad immunizzare dall’ossessione e dal senso malato di possesso, che riposa alla base della violenza di genere. L’ossessione non guarda negli occhi nessuno. Il male alberga nei luoghi più infimi e profondi del genere umano, fin da quando ne abbiamo memoria.
_Benvenuti nel Medioevo, dove l’essere umano paga costantemente il prezzo di una crisi senza precedenti, un vortice nero che fagocita ogni speranza di redenzione. Una continua violenza, che circola nel nostro liquido organico, come linfa vitale.
E’ una storia aspra, sporca, difficile da assimilare, quella di Stefano Cucchi.
La storia di tutti quegli esseri umani che sono entrati con le loro gambe in una casa delle istituzioni italiane, per uscirne in una cassa di mogano.
Esistono cose, nel mondo, che non si possono sfiorare con mano, che vivono nell’ombra dei nostri raggi solari; ma bruciano ugualmente.
Grida soffocate, occultate, macchiate, abbandonate all’oblio e allo sconforto più totale.
Ignorate da quelle istituzioni che, per mantenere immacolata la loro putrida coscienza, alzano il volume della radio.
La tortura rappresenta la perfidia dell’umanità; una vergogna tutta italiana, un reato che è un miraggio da oltre 30 anni. Un divieto assoluto sancito nella convenzione delle Nazioni Unite nel 1984, che ancora riposa, nelle luride coscienze del nostro governo.
_Benvenuti nell’epoca delle commedie e dei commedianti, burattini e burattinai, protagonisti indiscussi di questo fantomatico teatrino dell’assurdo. Una festa in maschera folleggiante, dove proliferano bugie, menzogne e plastica bruciata.
Ancora una volta una verità è stata soffocata dalla plastica finzione.
Vi chiediamo quindi scusa, se siamo morti tutti nelle vostre putride mani. (cit. Ilaria Cucchi)
Elisa Bellino
(frase completa di Ilaria Cucchi: http://roma.repubblica.it/cronaca/2016/10/05/news/caso_cucchi_ilaria_scusateci_se_siamo_morti_nelle_vostre_mani_-149135108/)