L’inasprimento delle pene, il braccialetto elettronico, il reddito di libertà: ma funzionano davvero contro la violenza sulle donne?
Risale all’agosto del 2019 la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del cosiddetto “Codice Rosso”: si tratta di 21 articoli che tentano di dare una risposta ai problemi della violenza di genere e della violenza domestica. A due anni dal suo ingresso nel nostro ordinamento e nella giornata contro la violenza sulle donne, cerchiamo di analizzare quali sono le questioni più problematiche della disciplina che, evidentemente, ancora scricchiola. Secondo i dati pubblicati all’interno di un dossier della Polizia di Stato in merito infatti ai reati verificatisi tra il 1° gennaio e il 21 novembre 2021, la situazione è molto lontana dal miglioramento. Su un totale di 263 omicidi volontari compiuti in Italia nel periodo in esame, infatti, 109 hanno riguardato le donne: non tutti però sono classificati come femminicidi, nel senso di atti che vadano a colpire la donna come oggetto di una cultura del possesso patriarcale. 93 di questi omicidi, comunque, sono avvenuti all’interno del contesto familiare e affettivo: 63 le mani dei partner o ex partner che hanno posto fine alla vita di mogli, fidanzate o ex compagne. L’aumento, rispetto allo stesso periodo del 2020, è dell’8%.
1. L’inasprimento delle pene funziona?
Il nuovo delitto di deformazione dell’aspetto attraverso lesioni permanenti al viso, introdotto all’art. 583-quinquies c.p.), dal nuovo Codice Rosso viene punito con la reclusione da 8 a 14 anni. Se ne consegue l’omicidio, la pena prevista è l’ergastolo. Fin qui, tutto lineare. Posto che le pene abbiano sembre un certo valore di deterrenza per il singolo o per la collettività, siamo davvero sicuri che la persona che agisce in modo aggressivo, violento e con lo scopo preciso di fare del male a una donna, sia trattenuto dalla contabilità processuale? Che due, tre o cinque anni in più cambino davvero qualcosa nel suo modo di comportarsi? La soluzione, ovviamente, non è quella di togliere le pene “perché tanto non funzionano”, ma forse la previsione di condanne più aspre non è comunque una risposta esaustiva.
2. Il braccialetto elettronico funziona?
Una delle questioni accolte con maggiore entusiasmo a proposito del Codice Rosso è stato sicuramente il braccialetto elettronico: nello spirito che lo accomuna al divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima, il braccialetto elettronico è a tutti gli effetti una misura cautelare che funziona, più o meno, come l’invio della posizione su Whatsapp. Si tratta di strumentazioni che funzionano però tramite segnale radio e che, nonostante siano parte del nostro vocabolario da tempo, in Italia hanno sempre trovato problemi applicativi. Nel 2013, a fronte di spese esorbitanti, i braccialetti elettronici attivi erano 55. Al 31 dicembre 2020, l’allora viceministro Vito Crimi ha specificato che i braccialetti in uso erano 4215, con la possibilità di attivarne ancora quasi 6000. C’è però un problema di fornitura con Fastweb, che, da contratto, dovrebbe averne già forniti 25 mila e invece si è fermata a 10 mila circa. Oltre al fatto che, per risolvere la questione dell’affollamento delle carceri, molti detenuti sono stati forniti di braccialetto e affidati alla detenzione domiciliare. I numeri, dunque, non tornano.
Potrebbe valere poi l’argomentazione precedente: il braccialetto elettronico può davvero prevenire l’avvicinamento di una persona violenta alla casa della sua vittima? Quanto è immediato l’intervento delle forze dell’ordine?
3. La genitorialità condivisa a tutti i costi funziona?
I Tribunali dei minori, spesso, come riportano molti giornali oggi, obbligano le donne vittime di violenza a organizzare incontri tra i bambini e i padri dei loro figli che sono, al tempo stesso, loro aggressori o persecutori. Se da una parte infatti l’azione del Tribunale è orientata al bene supremo del minore, dall’altra, però, chi tutela la madre? Maria Novella De Luca, su Repubblica, racconta la storia di Marika, fuggita dalle botte del compagno con la figlia di 9 mesi. Oggi è obbligata a portare la bambina agli incontri con l’ex compagno e i servizi sociali le domandano collaborazione e comprensione verso la rabbia del padre della bambina. Addirittura, se queste venissero meno, la bambina potrebbe essere affidata esclusivamente a lui. In molti si chiedono se questo preservi davvero il minore e la madre o se non sia una cieca applicazione di una norma non considerando il contesto.
4. Meno del 15% delle donne denuncia
Se anche le leggi funzionassero, però, un problema di fondo rimarrebbe comunque: il sommerso. Nel nostro Paese è ancora elevatissimo il numero di donne che non parlano con nessuno di una violenza subita: 1 su tre, nel caso di violenze perpetrate dal partner, 1 su 4 nel caso di aggressori esterni. I tassi di denuncia si attestano, secondo l’Istat, al 12,2% dei casi quando l’aggressore è il partner: solo il 6% di chi invece viene aggredita da qualcun altro riporta il fatto alle forze dell’ordine. Poche sono ancora le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza: il 3,7% nel caso di violenza nella coppia e l’1% per quelle al di fuori.
5. La giustizia è troppo lenta
Per i maltrattamenti in famiglia, l’intervallo medio di tempo tra la data del commesso reato e la sentenza è di 31 mesi nel primo grado e di 58 mesi in appello: sempre l’Istat riporta questi dati. L’intervallo medio di tempo tra la data di una violenza sessuale e la sentenza, nel primo grado, è di 32 mesi. Salgono a 46 se si tratta di violenza sessuale di gruppo. Ora: a scoraggiare una donna dall’esporsi in questo modo, forse, è anche il lento pachiderma della giustizia che non offre risposte in tempi rapidi a chi subisce un reato. Certo, è importante il garantismo ed esistono anche le misure cautelari, ma entrare nel tunnel di un processo significa anche, udienza dopo udienza, dover ripetere, raccontare, respirare nuovamente quell’atmosfera di angoscia e terrore, almeno per 31 mesi: quasi tre anni. È umanamente sopportabile?
6. La vittimizzazione secondaria
Giusto qualche settimana fa, in tv, è andato in onda un intervento di Barbara Palombelli che ha fatto molto discutere. La conduttrice ha utilizzato l’espressione “donne che esasperano i loro uomini” come chiave di lettura per interpretare certi tipi di violenza: ora, senza tornare necessariamente sul polverone sollevato in proposito, bisogna considerare che, oltre ai dilatatissimi tempi della giustizia, la donna nel periodo in cui ha a che fare con tribunali, denunce e processi, è seriamente esposta anche al problema della vittimizzazione secondaria. È infatti due volte vittima quando, dopo un abuso o una violenza, vengono utilizzati nei suoi confronti metodi di indagine che non la tutela, che la espongono a dei traumi e che mettono in dubbio la sua credibilità per stereotipi magari legati al suo stile di vita. Chi ne avrebbe voglia?
7. Il problema economico e il reddito di libertà
In un Paese in cui il 50% delle donne non lavora, significa che il reddito su cui fa affidamento, spesso, è quello del compagno, del marito o del fidanzato. Questo crea un legame economico molto più vincolante rispetto a quello affettivo: il distacco è ancora più difficile quando, concretamente, la vittima non vede una via d’uscita da una situazione abusante, anche a causa di una mancata indipendenza economica. Non c’è un conto in banca a cui poter attingere in autonomia perché non manca un reddito e in questo ricatto economico si stringe ancora di più la morsa della violenza. La legge ha previsto l’introduzione del cosiddetto “reddito di libertà”, ma fin da subito si è scontrata con un problema ulteriore: la somma concessa a ogni vittima è di 400 euro mensili per un anno, tramite richiesta all’INPS. Il problema è che le risorse stanziate ammontano a 3 milioni di euro: ne potranno beneficiare solo 625 donne in tutta Italia. Fine.
8. Tutte le discriminazioni che non fanno notizia
Gender gap, cat calling, domande invasive ai colloqui di lavoro e tutto il resto sono alcune delle forme di violenza che non fanno notizia, perché “Fanno tutti così”. Il problema è che derubricare frettolosamente un atteggiamento discriminante a un laconico “Non si può più neanche scherzare” ha già reso questo modello di comportamento un copione che passa tranquillamente sotto traccia. Ci sono tutta una serie di micro e macrodiscriminazioni che vengono, semplicemente, tollerate: temiamo di essere pesanti, di non essere abbastanza people pleaser, come ci hanno insegnato che ogni brava bambina sorridente debba essere.
La domanda, infatti, rischia di essere, ancora una volta “Quanto ancora riusciamo a sopportare?”: che sia uno schiaffo, che sia un commento inappropriato e aggressivo, che sia un atteggiamento portato avanti nell’ambiente lavorativo o sociale. La giornata del 25 novembre, ogni anno, si infarcisce di retorica e di iniziative di marketing: rischia di diventare la giornata delle belle frasi contro la violenza sulle donne. La giornata delle scarpe rosse e dei post su Facebook: poi però, la sera, quando qualcuna torna a casa rischia che, ad aspettarla, ci siano un sacco di botte da cui, ancora una volta, non sa come fuggire. Perché non sa con chi parlare, perché non ha da parte abbastanza soldi, perché chissà i bambini.
Elisa Ghidini