Violenza ostetrica: il primo passo per debellarla è riconoscerla.
Si parla di violenza ostetrica in riferimento a tutti i comportamenti, da parte di medici e personale sanitario, che riguardano la salute produttiva delle donne, la gravidanza o la sua interruzione. Nella maggior parte dei casi, si riassumono in maltrattamenti e umiliazioni che la donna subisce in ambito sanitario. In Paesi dell’America Latina, quali Venezuela, Argentina, vari stati del Messico, Santa Caterina in Brasile e Uruguay, la violenza ostetrica è, a tutti gli effetti, violenza di genere. La sua accezione risiede nel fatto che, questo tipo di violenza, scaturisce da pregiudizi e stereotipi legati alla figura della donna e al suo posto nel mondo.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità la descrive come tutti gli atteggiamenti che rappresentano le disuguaglianze di genere e li condanna in tutte le loro forme. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite l’ha riconosciuta come una violazione dei diritti umani, legati alla salute e alla riproduzione. Ciò che rende pericolosa la violenza ostetrica è, però, il suo essere un nemico subdolo che non sempre viene riconosciuto dai più. Molti dei comportamenti adottati dai sanitari, vengono fatti passare per la normalità. Si celano i sentimenti della paziente che viene trattata come un semplice oggetto e non come un essere umano dotato di emozioni e dolore fisico.
In cosa consiste?
Alcuni degli atteggiamenti più diffusi che vengono normalizzati in ambito ostetrico sono, per esempio, sottovalutare il dolore della donna, trattandola con superficialità o mancandole di rispetto. Sono violenza ostetrica anche le decisioni che il personale sanitario prende sul corpo della paziente, qualora non ci siano delle complicanze di tipo sanitario che mettano in pericolo feto o madre.
Le indagini
Da un’indagine nazionale sviluppata da Ovoitalia e Doxa, il 21% delle mamme ha dichiarato di aver subito violenza durante il parto. Il 6% di loro non ha voluto avere altri figli per paura di dover ripetere l’incubo del parto un’altra volta.
Altro scoglio si deve riconoscere nell’Episiotomia: l’incisione chirurgica del perineo nell’area compresa tra vagina e ano. Ha lo scopo di facilitare l’uscita del bambino e velocizzare il parto. Tale pratica è stata subita dal 54% delle partorienti, anche dove non era necessario o, addirittura, dannoso. Il 61% delle donne sottoposte a episiotomia dichiara di non aver dato il consenso informato. Tra queste, il 15% la considera una menomazione degli organi genitali e il 13% l’ha vissuta come un tradimento. Le complicanze scaturite possono essere varie, tra cui difficoltà a sedersi o camminare per svariate settimane o problemi o dolori nei rapporti sessuali dopo il parto, fino ad arrivare a infezioni ed emorragie.
Ancora, dallo studio effettuato, il 32% dichiara di aver partorito con un cesareo. Tra queste, solo il 15% ha avuto la necessità di sottoporsi d’urgenza. Per il restante 17% è stata, con tutta probabilità, una scelta azzardata che si sarebbe potuta rivelare fatale. Le complicanze più frequenti del taglio cesareo portano ad emorragie, lesioni all’apparato urinario, così come trombosi venosa profonda ed embolia polmonare. L’OMS ha dichiarato come 4 volte più pericolosa di un parto naturale, la nascita tramite intervento cesareo. Allora come contrastarlo?
I provvedimenti dell’OMS
Il principale obiettivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è di ridurre al minimo l’intervento medico non necessario durante le ore che precedono il parto e, contemporaneamente, anche la violenza ostetrica. Per fare ciò si è consigliata la classificazione di Robson. Il metodo prevede 10 gruppi di partorienti distinti in base al quadro clinico, per classificare la necessità dei tagli cesarei applicabile a livello internazionale.
C’è ancora molta strada da fare per contrastare la violenza di genere e, ancora di più, la violenza ostetrica. Tuttavia, è solo parlando e denunciando il fenomeno che possiamo sperare in un domani migliore e più inclusivo.
Mariachiara Grosso