Alle 7.45 del 4 marzo 1947 un plotone formato da trentasei poliziotti torinesi spara a tre uomini che di spalle, legati a delle sedie fissate al terreno con dei paletti di legno, attendono la loro sorte. Quegli uomini sono Francesco La Barbera, Giovanni Puleo e Giovanni D’Ignoti, tre dei quattro responsabili del massacro di Villarbasse e le vittime dell’ultima condanna a morte in Italia per crimini comuni.
Nonostante fosse già palese la volontà dell’Assemblea costituente di cancellare dall’ordinamento la pena capitale – che verrà abolita con l’entrata in vigore della Costituzione il 1° gennaio 1948 – l’efferatezza del crimine, il coinvolgimento della stampa e dell’opinione pubblica risultarono decisivi per il destino dei tre siciliani.
UNA RAPINA FINITA MALE
Massimo Gianoli è un avvocato molto conosciuto a Villarbasse, piccolo centro fuori Torino dove ha acquistato nel 1920 la cascina Simonetto, divenuta negli anni ’30 un fiore all’occhiello delle aziende agricole piemontesi.
La sera del 20 novembre 1945 l’avvocato, già dirigente Agip fino allo scoppio della guerra, sta cenando nella grande sala della villa padronale con altre sette persone. C’è il fattore Antonio Ferrero, la moglie Anna Varretto, il genero Renato Morra, le due governanti Rosa Martinoli e Fiorina Maffiotto, la domestica che serve in tavola, Teresa Delfino, il bracciante Marcello Gastaldi, invitato per festeggiare la sua nuova assunzione e una bambina di due anni.
Al calare della notte quattro individui fanno irruzione nella casa. Oltre ai tre che finiranno contro il muro c’è anche Pietro Lala che sotto il nome di Francesco Saporito ha lavorato come bracciante nella cascina per carpire le abitudini e le dinamiche della casa, convinto che nella cassaforte ci sia un tesoro a portata di mano. I quattro hanno il volto coperto da un lembo di stoffa e procedono con la rapina: un bottino da 200.000 lire, un paio di orecchini, delle coperte, dei salami e cianfrusaglie varie.
In pochi secondi una svista fa precipitare gli eventi: il fazzoletto che copre il volto di Lala si allenta e Renato Morra, riconosciutolo, non trattiene il proprio sdegno, firmando la condanna a morte di tutti i presenti.
LA STRAGE
Individuata una cisterna di raccolta dell’acqua piovana nascosta nell’aia, i quattro, tutti di origine siciliana, procedono con l’eliminazione dei testimoni. Dopo aver legato loro dei blocchi di pietra alle caviglie, il più grosso della banda, Giovanni Puleo, li colpisce con una spranga di ferro alla nuca.
Un colpo secco e giù nell’acqua, non importa se ancora vivi o morti. Oltre ai commensali finiscono vittime della carneficina anche i rispettivi mariti delle due domestiche, Gregorio Doleatto e Domenico Rosso, sorpresi dagli assassini mentre, giunti nella cascina, cercavano le mogli che si attardavano a tornare a casa. Sopravvive solo la bambina.
GALEOTTA FU LA TESSERA
L’allarme parte il mattino seguente, quando un giardiniere sente il pianto del piccolo nella casa apparentemente abbandonata in fretta e furia. Giunti sul posto gli inquirenti trovano evidenti segni di una rapina, un cappello sporco di sangue e tra i filari delle viti un indumento con l’etichetta che indica in Caltanissetta il luogo di fabbricazione.
Dopo otto giorni di ricerche in cui, palmo a palmo, carabinieri, ex partigiani, soldati americani e volontari rastrellano tutta la zona circostante, boschi e montagne compresi, il 28 novembre il mugnaio Enrico Coletto individua la cisterna e con essa la macabra scoperta dei corpi tumefatti dall’acqua.
Dopo alcune false piste che infittiscono di mistero la storia, che ormai campeggia sulle prime pagine di molti giornali nazionali, un lembo della tessera annonaria riconducibile a D’Ignoti inchioda i criminali. Il 4 marzo 1946, arrestato e convinto di essere l’ultimo ancora in libertà, il giovane vuota il sacco ricostruendo l’intera dinamica degli eventi e permettendo ai carabinieri di ammanettare anche altri due complici, Puleo e La Barbera. Pietro Lala, tornato in Sicilia e probabilmente coinvolto in affari mafiosi, viene ucciso a Mezzojuso e il suo corpo ritrovato l’11 aprile del 1946.
L’ESECUZIONE
Vano è il ricorso presentato in Cassazione dagli imputati, così come è vana la richiesta di grazia presentata al Capo dello Stato Enrico De Nicola. La sentenza viene confermata col solo Palmiro Togliatti, leader dei comunisti, a far sentire la sua voce, vana, contro l’esecuzione della massima pena.
All’alba del 4 marzo del ’47, esattamente a un anno dall’arresto di D’Ignoti, il cappellano del carcere Le Nuove di Torino, don Ruggero Cipolla, accompagna i tre nel vicino poligono di tiro delle Basse di Stura. Legati a delle sedie, spalle al plotone, riascoltano per l’ultima volta la sentenza e dopo l’ultima sigaretta vengono giustiziati. «Giustizia è fatta», la frase rituale pronunciata dal medico della polizia al Procuratore della Repubblica, viene ripetuta per l’ultima volta per l’ultima condanna a morte comminata in Italia per reati comuni.
FU VERA GIUSTIZIA?
Per capire la strage di Villarbasse e le ragioni che portarono all’ultima condanna a morte in Italia è indispensabile un quadro della situazione. La guerra era appena finita e il Paese, in ginocchio, provava a risollevarsi.
Non fu solo l’efferatezza del gesto a inchiodare al patibolo i quattro siciliani quanto la necessità di dare un messaggio chiaro alla foltissima schiera di lettori, per lo più borghesi, che, scioccati, indignati e macabramente appassionati alla vicenda, reclamavano una giustizia esemplare. La violenza, incubata come un virus da vent’anni di fascismo e dalla guerra logorante, veniva rigettata e doveva essere sotterrata da altra violenza.
L’estrazione sociale dei quattro siciliani, emigranti, di quelli che vivevano alla giornata nei campi o nelle fabbriche di Torino e la loro azione contro un membro rispettato della società, fecero il resto. Una nuova pagina della giustizia italiana stava per aprirsi con l’avvento della Costituzione, ma l’ultima pagina del vecchio libro della storia sarebbe stata macchiata dal sangue.
CORSI E RICORSI
C’è un ponte che collega idealmente la strage di Villarbasse con un altro efferato omicidio della storia recente italiana. Se Villarbasse ha scioccato la generazione dei nostri nonni, il massacro del Circeo ha senza dubbio avuto lo stesso impatto, decuplicato dall’evoluzione dei mass media, per la generazione successiva.
Nella notte tra il 29 e il 30 settembre del 1975 tre ragazzi dell’alta borghesia romana, “pariolini” come si dice tra le strade della Capitale, torturarono, stuprarono e brutalizzarono due giovani, Rosaria Lopez di diciannove anni e Donatella Colasanti, di venti, in una villa a San Felice Circeo. Solo la seconda sopravvisse e dal suo resoconto è stato possibile ricostruire in dettaglio le ragioni del massacro.
Se a Villarbasse il delitto, degenerato, fu per “fame”, il Circeo ribaltò lo schema. Tre ragazzi, ricchi e di estrema destra, contro due donne, proletarie dei quartieri popolari. La supremazia del maschio e della sua forza derivante dalla classe di provenienza contrapposta alla debolezza femminile e di bassa estrazione sociale. Un delitto d’odio.
VENTI DI GUERRA
Nonostante la condanna all’ergastolo comminata per tutti e tre gli autori del crimine, dopo circa trent’anni dal delitto Angelo Izzo ottenne la semilibertà e, nell’aprile del 2005, tornò a uccidere assieme a un complice due donne, moglie e figlia di un pentito di mafia conosciuto in carcere.
La vicenda sollevò un polverone mediatico e numerose proteste, tra chi vedeva falle gigantesche nel sistema di giustizia in Italia e chi si batteva addirittura per un ritorno alla pena capitale.
L’ultima condanna a morte in Italia, eseguita 58 anni prima, non spaventava più.
Oggi, imbeccati da certa squallida politica propagandistica e facilona, quella che ha sempre la risposta pronta e semplice a questioni complesse e articolate, i social pullulano di gente che vorrebbe riproporre la pena di morte per i reati più gravi, leggasi quelli più mediatici e in cui il coinvolgimento dell’opinione pubblica finisce per indirizzare la coscienza di tutti.
Il diritto alla vita, capostipite dei diritti inviolabili della persona, è figlio di lotte e conquiste pagate a carissimo prezzo, fondate sull’idea che nessuno, soprattutto lo Stato, possa sostituirsi al braccio del boia e che l’eliminazione del problema non contribuisca a risolverlo alla radice.
(…) E l’ordine non sparirà col boia, non credeteci. La volta della società futura non crollerà per l’assenza di quella chiave schifosa. La società non è altro che una serie di trasformazioni successive. (…) Si guarderà al crimine come a una malattia e quella malattia avrà i suoi medici che sostituiranno i vostri giudici, i suoi ospedali che sostituiranno i vostri bagni penali. La libertà e la salute si somiglieranno. Si verseranno balsamo e olio dove si applicavano ferro e fuoco. (…) Sarà una cosa semplice e sublime.
Victor Hugo – Prefazione alla terza edizione de “L’ultimo giorno di un condannato“
Alessandro Leproux