Un bracciante 33enne di origini indiane avrebbe chiesto ai datori di lavoro guanti e mascherina per difendersi dal coronavirus e, per tutta risposta, sarebbe stato prima licenziato, poi, dopo aver chiesto di essere pagato per il lavoro svolto, aggredito con calci e pugni e successivamente gettato in un canale.
Capito il signorino?
Viene qui nel nostro Paese a farsi sfruttare, a lavorare 7 giorni su 7 senza mai riposo, per 4 euro l’ora, 12 ore al giorno e invece di essere grato al proprio benevolo padrone italiano per tanta magnanimità, chiede pure di avere la mascherina.
Voleva rispettare la legge, il signorino, non gli bastava farsi sfruttare.
Ma i nostri italianissimi e cristiani connazionali, proprietari dell’impresa agricola di Terracina in cui il bracciante era schiavizzato (pardon, impiegato), gliel’hanno fatta vedere.
Lo hanno rimesso in riga, l’immigrato.
Prima lo hanno licenziato, così impara a voler rispettare la legge e la salute altrui.
Poi, quando l’ingrato schiavo (pardon, bracciante) ha chiesto che gli venisse pagato il lavoro svolto (vedi un po’ che pretese hanno questi, vogliono pure essere retribuiti), lo hanno massacrato di calci e pugni, fratturandogli le ossa in più punti, e gettato in un canale.
Perché questo ancora accade in Italia, nei campi, dove schiere di braccianti – anche se fortunatamente non sempre, perché gli imprenditori onesti sono tanti – vengono sfruttati, ricattati, sottopagati (quando va bene) da brava gente italiana.
E c’è chi ancora si oppone a ogni forma di emersione, di regolarizzazione che dia maggiori tutele a questi esseri umani che per paghe da fame e condizioni spesso vergognose si fanno carico della raccolta dei frutti della terra che ogni giorno finiscono sulle nostre tavole.
Emilio Mola