L’addio dell’Italia alla nuova «Via della Seta» è oramai ineludibile. Roma sicuramente non rinnoverà il memorandum con Pechino ma per adesso il premier Giorgia Meloni non ha ancora trovato una soluzione per non scontentare la Cina. L’obiettivo dell’Italia è cercare di ridurre il rischio ritorsioni soprattutto dal punto di vista dei rapporti economici bilaterali con il gigante asiatico.
Troppi incroci pericolosi lungo la strada che da Pechino conduce a Roma. Meglio cambiare percorso. E’ questa l’opinione sempre più diffusa tra le fila del governo di Giorgia Meloni in merito alla “scelta scellerata e improvvisata” dell’Italia – così l’ha definita di recente il ministro della difesa Guido Crosetto – di aderire alla Nuova “Via della Seta”, l’iniziativa strategica della Repubblica Popolare Cinese per il miglioramento dei suoi collegamenti commerciali con i paesi nell’Eurasia.
Non è un segreto che il presidente del consiglio Meloni, sia alla ricerca di una soluzione per portare l’Italia fuori dalla nuova “Via della Seta”, senza scontentare Pechino e Washington. E a vedere da come sono andate le cose durante la prima visita alla Casa Bianca del presidente del consiglio italiano, sembra proprio che l’uscita dall’accordo commerciale con i cinesi, pretesa da Biden come prova di fedeltà dell’Italia verso l’alleato Atlantico, sia oramai ineludibile.
I piani i Meloni per uscire dalla partnership con Pechino
Le dichiarazioni di Crosetto sull’adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative (BRI) hanno destato sicuramente molto scalpore a Pechino, dopo mesi di tentativi diplomatici per convincere Roma a restare, ma non hanno còlto il Dragone di sorpresa. Prova ne è la dichiarazione del portavoce del Ministero degli Esteri cinese che si è limitato a un breve commento in cui ha sottolineato che “sfruttare ulteriormente il potenziale della cooperazione Belt and Road è nell’interesse di entrambe le parti”.
Tuttavia, la priorità di Meloni adesso è provare a capire come stracciare l’accordo con la Cina senza troppi danni collaterali o ritorsioni. Mentre era in visita a Washington, il presidente del consiglio ha annunciato di avere in programma un viaggio in Cina, per parlare direttamente con il potente mandarino Xi Jinping e per rendere la transizione il più indolore possibile, evitando di trasformare il risentimento cinese in un contraccolpo economico.
A Roma, però, sono ancora piuttosto confusi poiché considerano Pechino un competitor ma anche un partner – tema ribadito in un’ intervista al Corriere della Sera anche dal ministro Crosetto – ma soprattutto non hanno idea di come placheranno il naturale risentimento del Dragone per il mancato rinnovo della partnership.
Secondo le indiscrezioni raccolte dal Foglio, il governo Meloni “ha intenzione di chiudere la partita prima dell’annunciato viaggio” a Pechino, “che avverrà tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre”. L’incontro bilaterale con Xi Jinping dovrebbe, quindi, dimostrare ai cinesi la disponibilità italiana nel voler cercare una soluzione che non scontenti nessuno, soprattutto a Washington.
La scelta del governo Meloni allontana la “prospettiva cinese” dall’Italia
Con la dichiarazione congiunta firmata da Meloni alla Casa Bianca durante la sua visita negli Usa, Roma ha mandato un forte segnale a Pechino, impegnandosi “a rafforzare le consultazioni bilaterali e multilaterali sulle opportunità e le sfide poste dalla Repubblica Popolare Cinese”. L’Italia è infatti l’unico Paese del G7 ad aver sottoscritto un partenariato infrastrutturale con la Cina, durante il governo Conte, suscitando la preoccupazione degli americani.
Nel documento firmato da Meloni lo scorso 28 luglio si legge che “Gli Stati Uniti e l’Italia riconoscono che la resilienza economica richiede il derisking, la diversificazione e la riduzione delle dipendenze eccessive per costruire catene di approvvigionamento resilienti e sicure”.
In sintesi, le richieste di Washington sono chiare e dirette: gli americani vogliono che l’Italia abbandoni un accordo-quadro dalla forte valenza politica con la Cina per reimpostare il rapporto su una partnership che sia solamente economica . In questo, Roma si allineerebbe al resto dei Paesi del G7 e alla maggior parte dell’Occidente, portando a compimento il processo di ricollocazione atlantista, già affermato dal governo Draghi.
Inoltre, nella dichiarazione congiunta tra i due alleati, è stata ribadita “l’importanza vitale di mantenere la pace e la stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan, che è strumentale alla sicurezza e alla prosperità regionale e globale”. Il riferimento a Taiwan in un simile documento rappresenta una novità per l’Italia ma anche per la Cina che difficilmente rimarrà impassibile alla decisione di Roma.
Roma pronta a seguire l’esempio di Parigi e Berlino nei rapporti con la Cina?
A Washington sanno benissimo che per quanto l’Europa stia cercando di assecondare le pressioni americane sulla questione cinese, stenta ancora a presentare un fronte unito intenzionato ad accogliere la linea politica di un disaccoppiamento integrale dell’economia europea con quella cinese (decupling). E perciò, negli ultimi anni, gli Usa hanno iniziato a predicare il mantra del de-risking, soluzione questa che potrebbe essere presto adottata anche dall’Italia.
Meloni, potrebbe, quindi, seguire l’esempio di Emanuel Macron e Olaf Scholz che si sono precipitati a Pechino, subito dopo lo scontato rinnovo del Politburo e del suo presidente Xi, portandosi dietro aziende e miliardi di euro da investire nella terra del Dragone.
Oppure, visto che tra gli obiettivi di politica estera di Meloni rientra prepotentemente l’Africa, non è escluso che Roma possa tentare di addolcire i malumori di Pechino proponendo a Xi un “matrimonio riparatore” con i due Paesi pronti a collaborare ad un piano d’investimenti nel continente nero.
Anche in questo caso, però, l’Italia dovrebbe comunque sentire cosa ne pensano gli alleati dall’altra parte dell’Oceano, rischiando di apparire ai partners cinesi come chi, privo di mezzi e autonomia, prova a fare le classiche “nozze coi fichi secchi”.
Ovviamente, queste sono soltanto supposizioni. Per il momento, l’unica cosa certa è la volontà italiana di disimpegnarsi dall’accordo stretto con la Cina nel 2019. Il ministro Tajani dovrebbe essere a Pechino il prossimo settembre per «preparare» la visita di Meloni ma il condizionale è d’obbligo, visto che il suo omologo Qin Gang, da settimane sparito misteriosamente dalla circolazione, è stato sostituito da Wang Yi, un alto funzionario molto più allineato al partito e diffidente verso i partners europei.
Tommaso Di Caprio