Un bellissimo articolo apparso qualche giorno fa sul New York Times mi ha fatto venire voglia di rivedere Lo Squalo. “Bell’idea”, direte. Quando si intravede da lontano la speranza di andare in vacanza, dopo una primavera passata in lockdown, perché non procurarsi, oltre al terrore del virus, anche quello per la fauna acquatica? Avreste mai pensato che nel 2020 sull’Italia potesse abbattersi una pandemia? Ecco. E allora lasciate che mi crogioli nel terrore che a Pinarella di Cervia possa materializzarsi uno squalo.
Io Lo Squalo da bambina lo avevo visto. Non so perché e non so come io sia riuscita a mettere le mani sul telecomando nella stessa serata in cui in tv davano qualcosa di presumibilmente etichettato con un bollino rosso. Fatto sta che mi ricordavo il sangue nell’acqua e il “Ci serve una barca più grossa”. Esattamente come Jennifer Weiner, autrice dell’articolo sul NYT, avevo qualche vago ricordo del muso dello squalo e associavo la paura ai denti, al sangue e al pensiero che, nel tuffarmi nelle acque del mar Adriatico, potessi trovare ad accogliermi qualcuno che voleva tenersi almeno qualche mio arto.
Il vero cattivo non è lo squalo
Vedere Lo Squalo in questi giorni, invece mi ha sconvolto in un altro senso. Come è possibile che un film girato negli anni Settanta riporti a sensazioni che potrebbero essere il riassunto del 2020? Insomma, la Weiner e tutti quelli che hanno visto il film in questo periodo, hanno capito una cosa che è lì, chiara e limpida: il vero cattivo del film non è lo squalo. Il vero cattivo è il sindaco Vaughn. E la genialità di Spielberg e di Benchley, che ha scritto il romanzo, sta tutta qui, perché nella trama l’aspetto più inquietante è l’ostinato negazionismo del sindaco.
“Amity è una città estiva, abbiamo bisogno di dollari estivi”
Dal discorso del sindaco Larry Vaughn, dopo il primo attacco dello squalo
“E’ stato un peschereccio”
Il parallelo potenzialmente retorico con le logiche di gestione della pandemia è dunque inevitabile. Si materializza un pericolo, tanto inimmaginabile quando inaccettabile, e la gente si divide tra catastrofisti e negazionisti. La polizia, nel film, vuole chiudere le spiagge, ma il sindaco si oppone con una frase che sembra presa da un discorso qualsiasi di uno tra i leader populisti che si sono trovati a fronteggiare un numero spaventoso di contagi. Bolsonaro o Trump reciterebbero benissimo la parte del sindaco Vaughn, che, di fronte alle prove incontrovertibili e raccapriccianti dei resti umani sulla spiaggia, contrappone un imperterrito “E’ stato un peschereccio”.
Motivo? Non scatenare il panico e non spaventare i vacanzieri previsti per il 4 luglio. Ma lo squalo uccide ancora. A prendersi tutta la colpa è il capo della polizia, anche se ha tentato di fare emergere la verità.
Lo squalo non esiste
Da piccola era il sangue sull’acqua a farmi paura. Invece, da adulta, forse un po’ suggestionata e provata dai mesi di isolamento, mi agita l’inquietante tentativo di insabbiare, minimizzare e inseguire il denaro, costi quel che costi. In pochi mesi, tutto il mondo è diventando Amity, una ridente cittadina che sotto i colori sgargianti di ombrelloni, costumi da bagno e bar sulla spiaggia nasconde invece la cupidigia più becera e la codardia al servizio del denaro. E il sindaco Vaughn lo sono stati, a turno, molti degli amministratori della nostra libertà. Dalla Cina inizialmente insabbiatrice al cinico Boris Johnson, da uno spregiudicato Bolsonaro a un dissennato Trump.
Tutti, di fronte all’evidenza dello squalo, si sono trincerati dietro dichiarazioni tanto stupide quanto pericolose. Sminuire la pandemia è dire che lo squalo non esiste o dire che comunque la maggior parte dei nuotatori non verranno di certo attaccati. E’ affermare che tra gli azzannati più giovani c’è chi ha già avuto una guarigione completa. O, per dirla alla Weiner, trovare una correlazione tra le morti e la presenza degli hippy, presunta minaccia alla rinfrancante tranquillità di Amity.
Il predatore è solo un dettaglio
Alla fine, quindi, Lo Squalo non è un film su un grosso pesce che smembra le persone. E’ un film sul fare la cosa giusta quando fuori c’è il panico. Si tratta di una storia di leadership di fronte alla paura in cui, da adulti, ci si rende conto che il predatore è solo un dettaglio. E’ la rappresentazione materiale del terrore, ma il film non sarebbe poi così diverso se il titolo avesse avuto a che fare con gli incendi. O con le valanghe. O con qualche altro tipo di calamità. Come ad esempio una pandemia. Il genio di Spielberg sta nel portare sullo schermo la polarizzazione che si ripete sempre quando c’è in ballo la lotta tra la cosa utile e la cosa buona. Ed è quello che sta avvenendo negli Usa in questi giorni: in un Paese che arriva ai 1000 decessi al giorno, persino la mascherina è stata politicizzata. C’è chi non la indossa, annoiato dal sistema di precauzioni o certo della propria onnipotenza. Il Presidente, intanto, dice che nella sua Amity va tutto bene. E che al massimo la gente muore per colpa dei pescherecci.
Elisa Ghidini