Veicoli elettrici e diritti umani: è ora di cambiare marcia

Veicoli elettrici e diritti umani

Inquinamento, sfruttamento, sfratti forzati, violenze.
Dietro la transizione verso i veicoli elettrici ci sono popolazioni i cui diritti umani vengono ignorati e violati

La produzione di veicoli elettrici non tiene conto dei diritti umani, secondo l’ultimo report di Amnesty International dal titolo: “Ricarica per i diritti: classifica sulla due diligence in materia di diritti umani dei principali produttori di veicoli elettrici”.

Il passaggio ai veicoli elettrici — quindi il graduale transito dai combustibili fossili alle energie rinnovabili — è uno dei principali obiettivi alla base della lotta al cambiamento climatico.
Tuttavia, ci sono anche altri aspetti da considerare. Come l’espansione delle miniere e i conseguenti sgomberi forzati delle comunità locali, lo sfruttamento del lavoro dei minatori, e i rischi per la salute degli stessi lavoratori e della natura circostante.

Per questo, Amnesty International ha pubblicato un nuovo report, nel quale ha valutato la responsabilità verso i diritti umani, ossia la “due diligence“, di 13 grandi aziende produttrici di veicoli elettrici, con sede in vari Paesi del mondo.
Si tratta di: Cina (BYD, Geely Auto), Francia (Renault), Germania (BMW, Mercedes-Benz, VW Group), Giappone (Mitsubishi, Nissan), Paesi Bassi (Stellantis), Corea del Sud (Hyundai) e Stati Uniti (Ford, General Motors, Tesla).

E, sebbene negli ultimi anni, a seguito di precedenti denunce, siano stati fatti molti passi avanti, i risultati del report sono stati giudicati deludenti e preoccupanti.

Veicoli elettrici e diritti umani, Amnesty: “Una grande delusione”

Nel nuovo report di Amnesty International, sul rispetto dei diritti umani da parte delle aziende produttrici di veicoli elettrici, ognuna di queste è stata valutata tramite una scheda (realizzata con criteri basati su standard internazionali).
Ogni scheda abbinava un punteggio ad alcuni aspetti tra cui: l’impegno per le politiche sui diritti umani, il processo di identificazione dei rischi, la mappatura e la reportistica della catena di fornitura, e le azioni di rimedio.

Il punteggio massimo raggiungibile era di 90 punti. Ma il risultato più alto è di 51 punti (ottenuto da Mercedes-Benz) mentre il più basso di soli 11 (della cinese BYD).
Osservando questi risultati, la segretaria generale della ONG, Agnès Callamard, ha espresso una profonda delusione.

Nonostante alcuni progressi, i punteggi complessivi sono stati una grande delusione.
BYD, una delle aziende di veicoli elettrici più grandi e in più rapida crescita, si è classificata in fondo alla nostra valutazione. Le sue dichiarazioni mostrano una grave mancanza di trasparenza sulla due diligence relativa ai diritti umani nelle sue catene di fornitura di batterie.

Altre aziende con punteggi bassi, come Hyundai e Mitsubishi, mostrano una carenza di dettagli e informazioni riguardo all’attuazione, nei settori chiave, della due diligence sui diritti umani. Gli impegni che queste aziende dichiarano sono spesso vaghi e forniscono poche prove di azioni concrete, dimostrando che devono ancora fare molta strada per soddisfare gli standard internazionali

Molte delle aziende prese in esame, infatti, hanno ottenuto punteggi bassi nonostante avessero in precedenza dichiarato un grande impegno verso il rispetto dei diritti umani.

Si tratta principalmente di BYD, Geely Auto, Hyundai, General Motors e Mitsubishi Motors, che hanno fornito scarsità di prove e dimostrato poca trasparenza sulle loro pratiche di approvvigionamento.
BYD, ad esempio, non ha fornito i nomi delle fonderie, raffinerie o siti minerari a cui fa riferimento.
Mentre, Geely Auto ha dato informazioni generali sulle sedi dei fornitori, senza specificare i siti di estrazione dei minerali. Così come Hyundai e Mitsubishi, che non hanno fornito ad Amnesty alcuna mappatura completa della loro catena di approvvigionamento.
Queste mancanze, come spiega ancora Callamard, sono “un problema serio“, in quanto portano a porsi dubbi sul modo in cui queste aziende si riforniscano di metalli e minerali.

Dall’altra parte, Bmw, Ford, Mercedes-Benz, Stellantis, Tesla e VW Group hanno totalizzato i punteggi più alti. Ma che risultano comunque bassi in relazione ai Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani.
Devono quindi implementare il loro impegno nel “identificare, prevenire, mitigare e rendere conto di come affrontano gli impatti negativi sui diritti umani che possono causare, contribuire a causare o essere direttamente collegati alle loro operazioni, ai prodotti o ai servizi“.

Sfruttamento, inquinamento e malattie: il razzismo ambientale

Uno dei più grandi rischi per i diritti umani è legato alla produzione di batterie per i veicoli elettrici. E di sempre più tecnologie che sfruttano l’energia elettrica, come smartphone, laptop e biciclette. Le cosiddette batterie agli ioni di litio contengono infatti minerali e metalli, tra cui: cobalto, rame, litio e nichel.

E, al forte aumento della domanda, la produzione ha risposto con una corsa all’estrazione dei minerali. Senza tener conto dell’impatto che questa avrebbe avuto sui diritti umani, oltre che sull’ambiente stesso, come ha spiegato Agnès Callamard.

L’estrazione dei minerali utilizzati nei veicoli elettrici può comportare enormi rischi per le persone e l’ambiente. Le precedenti ricerche di Amnesty International hanno mostrato come il cobalto industriale sia collegato a sgomberi forzati nella Repubblica Democratica del Congo

Uno dei Paesi che, più di tutti, si trova a combattere contro l’estrazione mineraria è la Repubblica Democratica del Congo. Da qui, infatti, proviene circa il 70% della produzione globale di cobalto, ed è anche la settima più grande riserva di rame a livello globale.

L’estrazione mineraria avviene principalmente nella provincia meridionale di Lualaba, nella zona che circonda la città di Kolwezi. Proprio quest’area, dove si trovano le principali miniere di cobalto, è stata ribattezzata come “zona del sacrificio“.




Questo perché, per rifornire le aziende di cobalto, sono oltre 110.000 e 150.000 i “creusers“, o minatori artigianali, bambini e adulti, che scavano a mani nude nelle cave. Lavorano oltre dodici ore al giorno, in condizioni estreme di schiavitù e violenza, rischiando di ammalarsi o persino di morire a causa dell’inquinamento e degli incidenti sul lavoro.
Inoltre, in molti sono stati costretti ad abbandonare case e terreni agricoli per fare spazio all’espansione delle miniere.

Un’altra zona fonte di approvvigionamento è il cosiddetto “Triangolo del litio“, che comprende Argentina, Cile e Bolivia. La grande presenza di litio in questi terreni (circa il 60% delle risorse globali) ha portato a una rapida crescita economica dell’area, che ha visto però l’opposizione delle popolazioni indigene.
Le quali denunciano il fatto di non avere il controllo sullo sviluppo delle proprie terre, a causa di una partecipazione quasi nulla ai processi decisionali ambientali.

Da che abbiamo memoria, il nostro obbiettivo è quello di conservare la foresta, che è la nostra casa e la nostra fonte di vita.
Ovviamente, quando vivi a 2 giorni di cammino nella foresta dalla strada più vicina, un’impresa straniera rappresenta l’unica alternativa all’agricoltura e alla caccia. Così, il mondo occidentale sta omologando anche la nostra cultura indigena mettendola alla mercè del proprio sistema economico basato puramente sul profitto

Inoltre, il “Triangolo” è una delle zone più aride della Terra, e lo sfruttamento minerario aggrava fortemente il prosciugamento delle loro risorse idriche locali

In Indonesia e nelle Filippine, territori dove predomina l’estrazione di nichel, è particolarmente grave la situazione ambientale.
Sono oltre 5.300 gli ettari di foresta abbattuti. In più, per estrarre e lavorare il nichel serve elettricità, che l’Indonesia produce in gran parte col carbone, ossia il più tossico e climalterante dei combustibili fossili.
Poi, l’estrazione mineraria genera polveri e residui tossici che inquinano l’atmosfera e contaminano l’acqua. Molte attività di pesca sono state interrotte, e numerosi terreni sono diventati di colore rosso intenso a causa della contaminazione da scarti di lavorazione.
Tutto ciò, infine, è alla base di tumori, problemi alla pelle e alle vie respiratorie.

Da un punto di vista globale, secondo il report di Amnesty International, le popolazioni che abitano i suddetti territori sono soggetti al razzismo ambientale.
Il termine, coniato nel 1982 dal leader per i diritti civili afroamericani, Benjamin Chavis, indica una forma di razzismo per la quale le comunità etniche minoritarie sono sproporzionatamente gravate da rischi per la salute attraverso politiche e pratiche che le costringono a vivere in prossimità di fonti di rifiuti tossici, come impianti di depurazione, miniere, discariche, centrali elettriche, strade principali ed emettitori di particolato nell’aria. Di conseguenza, queste comunità soffrono di tassi maggiori di problemi di salute legati agli inquinanti pericolosi.

Oltretutto, la volontà di popolazioni indigene e attivisti di manifestare e protestare tramite atti pacifici di disobbedienza li espone ad altre violazioni dei diritti umani, tra cui: criminalizzazione, uso eccessivo o non necessario della forza, ferimenti e morti a causa di armi usate per disperdere la folla.
Secondo il Business and Human Rights Resource Centre, tra il 2010 e il 2021 sono stati 148 gli attacchi contro i difensori dei diritti umani, di cui il 41% contro le popolazioni indigene.

Guidare verso un futuro energetico che rispetti i diritti umani

La transizione globale dai combustibili fossili alle energie rinnovabili è necessaria per salvaguardare il clima e la vita dell’uomo sulla Terra. Permette, difatti, di accelerare le decarbonizzazione e di rallentare il graduale aumento delle temperature.
Ma ciò non deve avvenire sacrificando i diritti di altre persone.

Ad oggi, sono pochi i governi che riconoscono le responsabilità delle aziende nelle violazioni dei diritti umani. Questo, per diverse ragioni, tra cui: mancanza di solidi strumenti giuridici, di regimi efficaci per l’applicazione della conformità, di risorse finanziarie e di personale, di volontà politica.

Ma iniziative politiche e legislative, come ha dichiarato infine la Segretaria Generale Callamard, sono necessarie per proteggere sia la biodiversità, sia i diritti delle popolazioni locali.

Con l’accelerazione della transizione globale verso i veicoli elettrici, che alimenta la competizione internazionale e genera enormi profitti, Amnesty International chiede a tutti i produttori di automobili di migliorare i loro sforzi di due diligence sui diritti umani e di allinearli agli standard internazionali sui diritti umani.
Chiediamo anche ai governi di rafforzare la regolamentazione della due diligence sui diritti umani per quanto riguarda le aziende che si trovano nei loro territori o che sono soggette a licenze di esportazione e importazione.

Le aziende che sono in ritardo devono lavorare più duramente e rapidamente per dimostrare che rispettare i diritti umani non è solo un concetto privo di senso, ma una questione che prendono sul serio. È ora di cambiare marcia e assicurarsi che i veicoli elettrici non lascino dietro di sé un’eredità di violazioni dei diritti umani. L’industria deve invece guidare verso un futuro energetico giusto che non lasci indietro nessuno

Giulia Calvani

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