I vecchi Populisti non erano anti-intellettuali, i populisti nuovi invece sì

intellettuali

intellettuali

Basterà leggere nel “Programma di Omaha” del 1892 che i Populisti del People’s Party intendevano restituire il governo della repubblica a “the plain people”, alla gente semplice a cui il governo stesso avrebbe dovuto appartenere, per scovare in loro i segni dell’anti-intellettualismo? Questo sembra improbabile.

L’intenzione non era ostile agli intellettuali o alle persone colte. Rispecchiava piuttosto la tradizione di una democrazia non pedagogica che si fondava sul common man, il comune cittadino repubblicano, e ne celebrava le virtù: orgoglioso della sua indipendenza, competente a decidere con la sua testa, privo di deferenza sociale nei confronti delle better sorts per classe o istruzione, e tuttavia esso stesso abbastanza istruito e abituato a leggere giornali e pamphlet, ad avere familiarità con il mondo delle idee.




Che le idee, anche quelle complesse, potessero essere discusse con il linguaggio diretto popolare, senza ricorrere a quello oscuro dei chierici, era convinzione diffusa dai tempi della rivoluzione politica del 1776, dei grandi successi di diffusione e influenza del Common Sense di Tom Paine. E prima e dopo il 1776, dai tempi dei grandi risvegli religiosi anti-gerarchici e anti-clericali.

Tutto ciò era vero anche per i cittadini lavoratori e i cittadini agricoltori che erano capaci di auto-organizzarsi nel labor movement e nel People’s Party, includendo nei loro ranghi degli intellettuali riformatori ma senza dipenderne (questo era il caso, per i Populisti, di Ignatius Donnelly, lo scrittore e politico che aveva preparato il loro programma). Si trattava infatti di movimenti di popolo, non di movimenti che volevano andare verso il popolo.

Fu con gli anni venti del Novecento, in un contesto storico molto diverso, che emerse un nuovo anti-intellettualismo come discorso di contrapposizione radicale fra popolo e intellettuali. E certo vi contribuirono alcuni vecchi Populisti insieme a nuove tendenze religiose, che allora presero il nome di “fondamentaliste”, e a vecchi-nuovi razzismi. Un uomo come William Jennings Bryan, un leader Democratico più volte candidato alla presidenza, nel 1896 candidato anche a nome del People’s Party, poteva allora denunciare gli intellettuali come una élite arrogante, una “little irresponsible oligarchy of self-styled ‘intellectuals’”, un “scientific soviet” che coltivava le fredde ragioni della scienza contro quelle calde popolari del cuore. Bryan poteva dire: “Mind worship is the great sin in the intellectual world today”.

Nella sua forma più estrema e morbosa fu il Ku Klux Klan a concettualizzare il problema come un “new type of warfare”. Nelle parole di Hiram Evans, l’Imperial Wizard and Emperor of the Knights of the Ku Klux Klan, insomma il gran capo della ditta, quella guerra era combattuta, da una parte, da “the plain people” – ora intesi come il popolo di razza nordica, un po’ rozzo, non troppo istruito e non troppo intellettualizzato, magari da altri ridicolizzato come “drivers of second hand Fords”, ma autentico, non corrotto e “not de-Americanized”. Dall’altra parte c’erano gli intellettuali – ora definiti come traditori dell’americanismo, amanti più degli stranieri che dei loro stessi figli e della loro stessa razza. Negli anni venti, in certe aree della società americana, gli intellettuali erano diventati un-American.



Arnaldo Testi

Exit mobile version