Quando ci fu la prima ondata di Covid-19, molti afroamericani non poterono seguire i consigli istituzionali. Nelle linee guida diffuse per far fronte all’emergenza, infatti, una delle prime indicazioni era quella di chiamare il medico di base nel caso si avvertissero i sintomi dell’infezione. Peccato che molti afroamericani non avessero il medico di base.
Discriminazioni razziali di questo genere non sono state un caso isolato dall’inizio della pandemia. Prima che un vaccino entri in commercio c’è una sperimentazione da effettuare su un campione di popolazione, e questo campione deve essere il più possibile, in percentuale, rappresentativo delle persone che abitano il territorio. Purtroppo la storia ci insegna che, anche in materia di salute pubblica, esistono disuguaglianze che possono causare centinaia, migliaia, milioni di morti. E’ stato cosi in precedenti pandemie, circa protocolli e cure, e lo stesso si sta verificando per quella attuale.
Anthony Fauci, attuale consigliere della Casa Bianca per l’emergenza, è stato chiaro in proposito: le minoranze etniche dovrebbero essere incluse al 60% nei test clinici, tanto più per le condizioni di vita e di lavoro a cui sono sottoposte quotidianamente.
La pericolosità delle discriminazioni razziali per la salute pubblica
Secondo Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, l’efficienza dei vaccini dipenderà anche dal modo in cui la sperimentazione verrà applicata alle diverse etnie presenti sul territorio. Cioè, affinché i test siano davvero rappresentativi, è necessario tener conto delle minoranze etniche in modo più o meno corrispondente all’area demografica. Il rischio, altrimenti, è quello di ottenere un vaccino efficace su una parte della popolazione, ma che potrebbe non avere la stessa risposta immunitaria su un’altra fetta di popolo.
Dunque, prima che il dibattito sulla funzionalità del vaccino possa accendersi, magari alimentando la furia di qualche negazionista No Vax, sarebbe bene porre l’accento sulla funzionalità dei test clinici.
Si pensi, ad esempio, al vaccino per il Papillona virus: dopo la somministrazione il rischio di contrarre il tumore all’utero è dimezzato, tuttavia questo vaccino non dà gli stessi (buoni) risultati sulle donne afroamericane, in quanto quest’ultime sono state soggette a ceppi diversi del virus che, ai tempi, si è mancato di includere nei test clinici (il vaccino è entrato in commercio nel 2006).
Una cosa simile avvenne per il vaccino dell’Epatite C, dove per i test clinici venne utilizzato un campione del solo 1% di latino-americani, col risultato che questa etnia corre adesso un maggiore rischio di sopperire (40% in più di probabilità) contraendo il virus.
Discriminazioni razziali nei test clinici
Secondo i dati dell’Us Census Bureau, la popolazione americana è composta per il 13% da afroamericani, per il 18,5% da ispanici e per l’1,5% da nativi americani. Come riporta Luca Forestieri su “Il Manifesto“, le case farmaceutiche che si dicono pronte alla somministrazione del vaccino, ovvero, Pfizer, Moderna e AstraZeneca, ad agosto non erano esattamente in linea con quanto sottolineato da Fauci. Pfizer per i suoi test clinici aveva incluso il 26% di soggetti provenienti da minoranze etniche; addirittura meno Moderna, col solo 18%. Ancora, da una pubblicazione su Lancet, si legge che per i test di AstraZeneca sia stata coinvolta una bassissima percentuale di asiatici e nessun nero. C’è da dire che, per quest’ultimo vaccino sviluppato in Inghilterra, si sono presi in considerazione parametri diversi, in quanto diversa è l’aerea demografica corrispondente (in Gran Bretagna i neri rappresentano il 3,4% della popolazione e gli asiatici il 7,5%).
I test clinici sulle minoranze etniche avrebbero dovuto raggiungere il 60%
Per fortuna nei mesi a venire il tiro è stato corretto in corsa, grazie anche alle pressioni delle campagne di sensibilizzazione e alle raccomandazioni della Food And Drugs Administration e il National Health Institute. Del resto, considerare le corrette percentuali demografiche voleva anche dire non rischiare di perdere i fondi stanziati dal governo. Così, nella cosiddetta fase 3, i test su grande scala hanno coinvolto una popolazione maggiormente diversificata.
Sempre Fauci, alla Cnn, ha spiegato che in realtà i test sulle minoranze etniche avrebbero dovuto auspicare a circa il 60% di inclusività delle minoranze. Questo perché afroamericani, ispanici e nativi d’America per la maggior parte svolgono lavori essenziali in cui non sempre possono usufruire dei dispositivi di protezione, aumentando la percentuale di presenza di patologie pregresse e dunque la probabilità di contrarre il virus (3 volte di più) ed essere ricoverati in terapia intensiva (5 volte di più).
Fauci ha inoltre ricordato a tutti che, anche una volta vaccinati, è essenziale continuare ad utilizzare i dispositivi di protezione, in quanto il virus non scomparirà immediatamente. L’efficacia superiore al 90% che virologi e case farmaceutiche stanno sbandierando, in realtà non si traduce in una efficacia garantita soggetto per soggetto. «Ovviamente, con un vaccino efficace al 90%, potresti sentirti molto più sicuro» dice Fauci a Jake Tapper della CNN, tuttavia consiglia «di non abbandonare tutte le misure di salute pubblica», perché se anche l’efficacia per la popolazione fosse effettivamente pari al 90-95%, «non si sa necessariamente quanto sia efficace per te».
Gabino Alfonso