Dati, media, testi, canzoni, informazioni importanti e irrilevanti. Nell’era dell’informazione, tutto è – o deve diventare – Big, Open, Linked Data, l’obiettivo di di non perdere nulla, e preservare tutto il possibile, diventa velocemente un’ossessione, con risvolti sulla vita di tutti.
Un’ossessione per l’informazione – Lost Media, Information Overload e desensibilizzazione – 15 luglio 1974, Christine Chubbuck, reporter per Suncoast Digest, si suicida in diretta televisiva, dopo aver insultato la linea editoriale del giornale. Da allora, l’episodio del Digest, ritirato e archiviato, è al centro di una ricerca disperata da parte di cosiddetti “storici” intenti a reperire e catalogare tutto ciò che viene normalmente definito Lost Media.
I Lost Media sono oggetti molto variegati, dai più innocui episodi di Sesame Street non ripubblicati, alle ossessionanti scabrosità delle videocassette del suicidio dello stalker di Bjork. Il loro ritiro dall’occhio pubblico, per motivazioni a volte ovvie, e a volte dettate da semplici leggi aziendali, ha patinato tali oggetti di una patina mitologica, e ad alimentare un’ossessione verso la preservazione e la catalogazione di qualunque informazione, sia essa desiderata o meno.
Ma le conseguenze di una simile disponibilità di informazioni ha discutibili risvolti su come interagiamo con esse, e soprattutto sulla nostra sensibilizzazione verso i desideri di chi non vorrebbe fossero distribuite.
Lostwave, Lost Media, e l’etica del reperimento di informazioni perdute
Negli ultimi anni, i social media hanno favorito un revival del trend della Lostwave, dove su TikTok o Instagram vengono fatti circolare estratti di canzoni o di video chiedendo al pubblico di aiutare l’utente a reperire l’autore originae del pezzo, o a fornire maggior contesto.
Un terreno fervido per la creazione di contenuti, visto l’alto engagement che viene a instaurarsi a causa dell’effetto di “caccia al tesoro”. Ma, come prima citato, il reperimento di Lost Media si inserisce in ricerche di dubbia eticità. Nel nome della documentazione, comunità autonome tentano di restaurare video e audio sensibili, quando non di ricrearli. Nel caso prima citato del suicidio di Chubbuck, esistono almeno due versioni differenti dell’audio dell’episodio, di cui uno deve dunque essere obbligatoriamente un falso.
Ma Christine Chubbuck è solo uno degli esempi di Lost Media sommersi per motivazioni che si potrebbero definire eticamente corrette, e la spinta delle comunità a reperirle e diffonderle presenta dunque una questione piuttosto spinosa sul reperimento di oggetti un tempo pubblici ma ora, per un motivo o per l’altro, perduti.
Un’ossessione per l’informazione – Dal gossip al cyberbullismo e allo stalking
Nessuno apprezza i paparazzi. L’invasione della privacy di star e VIP in nome di testate giornalistiche vacue e prive di contenuto è reputata, giustamente, una delle peggiori forme di giornalismo in voga. Ciò nonostante, il Gossip è un settore che, pur trasformandosi radicalmente nel corso degli ultimi anni, è ancora fortemente in voga. Alla base di esso, i meccanismi psicologici del pettegolezzo come forma di catarsi e di comparazione sociale hanno trovato una spinta ulteriore nella digitalizzazione e nella possibilità di direzionare il pettegolezzo verso persone esterne alla propria cerchia locale e non obbligatoriamente VIP.
La rete permette infatti di catalogare e raccogliere informazioni su chiunque, e ne sono speciale vittima gli individui i cui comportamenti divergono dalla “norma”. Emblematico è il caso di Christine Weston Chandler, persona che da ormai vent’anni è soggetta a un’estenuante ricerca da parte di un gruppo di individui autodefinitisi “Christorians”, ossessionati dal desiderio di catalogare ogni sua azione, sia in rete che fuori. Christine, una donna trans neurodivergente e disoccupata, è diventata nel corso dello scorso ventennio una delle persone più documentate della storia, tanto da avere un documentario (tuttora in via di aggiornamento) di oltre sessanta ore dedicato a lei.
Un’ossessione per il personaggio, famoso per essere oggetto di scherno in rete, costituisce una fitta rete di comportamenti che si muovono fra le linee del voyeurismo e del cyberbullismo più bieco fino ad arrivare a forme di stalking da parte di individui che, in nome della “Christory”, visitano la sua casa, partecipano ai suoi processi in tribunali, viaggiano di città in città per filmare il momento del suo arresto. La vita di Christine è indissolubilmente legata all’onnipresente massa di informazioni reperibili online su di lei, e le sue – ed è un eufemismo – rocambolesche vicende sono parte di un circolo vizioso delle sue azioni in relazione a ciò.
Quando l’ossessione per l’informazione desensibilizza
Nel 1993, la fotografia intitolata “la bambina e l’avvoltoio” sconvolse l’occidente. La foto, scattata in Sudan durante la carestia e ritraente una bambina deperita e prossima alla morte mentre un avvoltoio, poco lontano da lei, la fissa, fu al centro di un discorso pubblico sul ruolo dell’informazione nel ritrarre le peggiori condizioni dell’umanità, e fu fra le probabili motivazioni sottostanti al suicidio del fotografo, Kevin Carter, l’anno successivo.
Si tratta, chiaramente, di un’immagine forte, ma che nel contesto attuale ci è pressoché impossibile comprendere appieno. Attraverso la rete siamo infatti sottoposti su base quotidiana all’orrore della morte infantile, sia essa per mare o in un territorio dilaniato dalla guerra.
La massa eterogenea di video, testi, foto, dichiarazioni presenti in rete è allo stesso tempo uno dei caposaldi della libertà di informazione nella contemporaneità, capace come non mai di fornire una visuale della scale di determinati eventi, sia dall’altro lato è alla base di un Information Overload in cui, essenzialmente, il lettore attua un distinguo fra l’elemento umano e l’informazione in sé.
Un’ossessione per l’informazione che ora più che mai è di facile accesso, e che si pone poi alla base di azioni – anche istintuali – che conducono in certi casi al mobbing e all’identificare, ad esempio, vittime di violenze sessuali che avevano espresso il diritto di rimanere anonime.
Roberto Pedotti