Lo stoccafisso è un pesce che viene catturato, diviso in due metà attaccate per un brandello di coda ed esposto per mesi mentre attende immobile l’essiccazione. Non vi ricorda il Partito Democratico?
Se governare un Paese non è semplice, bisogna ammettere che non deve essere facile nemmeno fare opposizione. Serve un progetto, dato da una linea comune e, soprattutto, il coraggio di portare avanti le proprie idee e di prendere posizione sulle questioni che ogni giorno la maggioranza pone sul tavolo. Tutti requisiti che, in questo momento storico, sembrano mancare al Partito Democratico. Quello che formalmente è il primo partito d’opposizione ma che sembra un semplice spettatore pagante delle marachelle dell’esecutivo giallo verde. O forse più uno stoccafisso.
Ci vuole talento
Bisogna prendere atto che però sia necessaria una buona dose di talento ostinato anche nel non fare nulla, soprattutto di fronte a un governo che ogni giorno offrirebbe a un’ideale sinistra nuovi e sempre creativi argomenti di indignazione e, soprattutto, mobilitazione. E invece: il nulla. Sembra quindi che il partito guidato da Nicola Zingaretti stia adottando la nobile tecnica dello stoccafisso. Così come lo stoccafisso viene catturato, pulito, spesso aperto lungo la spina dorsale, lasciando le due metà unite per la coda, ed esposto ad essiccare per mesi, così il Partito Democratico rimane in attesa della sua definitiva essiccazione, rigorosamente immobile e stoicamente diviso a metà.
Renziani o non renziani: questo è il problema
Un intervento piuttosto colorito di Roberto Giachetti, risalente al 2016, in cui critica aspramente l’ala non renziana
Le due estremità unite per un brandello di coda sono notoriamente quelle dei renziani e degli anti-renziani. Se prima della presentazione della nuova segreteria del Partito vigeva una pace armata, con gli anti-renziani ad aver monopolizzato la spartizione delle cariche interne, lo sbriciolamento ora è dietro l’angolo. Nessuna nuova idea è emersa, così come nessuna strategia comune per fare opposizione in modo serio al governo di Lega e Cinque Stelle. Nicola Zingaretti, intanto, è stato efficacemente soprannominato dall’Espresso il “Signor Boh”, in un impietoso ritratto della mancanza di identità del Partito e della sua segreteria.
Vi dice niente “4 dicembre 2016”?
Il partito ha iniziato a dividersi in due dal 4 dicembre 2016, dalla sconfitta renziana al referendum costituzionale e dai conseguenti festeggiamenti in proposito di D’Alema e Speranza. Da quasi tre anni, il Partito Democratico combatte al suo interno una guerra civile che si traduce nell’immobilismo politico e nella mancanza di progettualità. Da una parte ci sono i renziani fondamentalisti, che incolpano l’altra fazione di averli pugnalati alle spalle, decapitando la gloriosa esperienza del “governo dei mille giorni“. Dall’altra, invece, combattono quelli che ritengono che Renzi e i suoi abbiano snaturato il partito e la sua identità. Pensare che questi due partiti ormai in rotta di collisione possano coesistere in nome di una causa più alta è irrealistico. Il “bene del paese” rischia di essere il “bene dei figli” che rimanda un divorzio ormai necessario per ricominciare.
Se stiamo insieme ci sarà un perché
Zingaretti sostiene invece l’importanza della convivenza ostinata, mentre forse dovrebbe rivolgere i suoi sforzi altrove, verso un divorzio consensuale. E se guardare al passato può essere un errore, bisogna anche considerare che l‘esperienza dell’Ulivo, forse, non era stata così negativa. Potrebbe emergere una forza moderata, con una componente più democristiana che liberale. Contrasterebbe gli estremismi di destra, anche attraverso un’alleanza con +Europa e, addirittura, con quel che rimarrà di un altro stoccafisso prossimo all’essicazione, Forza Italia. In questo nuovo Ulivo, ci sarebbe spazio per Renzi, per Calenda, per le madamine dei Sì Tav, per il mondo di Confindustria e per il ceto medio che non vota Salvini o i Cinque Stelle. La sinistra in senso stretto invece accorperebbe tutti coloro che si riconoscono nei vecchi Ds. Sarebbe in dialogo costante con la Cgil e con le Ong, ritrovando quegli ideali di sinistra persi per strada con le vicissitudini di questi anni e punterebbe a riconquistare chi se n’era andato accusando Renzi di aver traghettato il Pd verso Berlusconi.
Ritrovarsi ogni cinque anni
Certo, ogni cinque anni sarebbe necessario trovare un momento di sintesi, per offrire un progetto comune al Paese, ma senza le tensioni interne date dall’ormai circo patetico e stantio attorno all’accettazione di Matteo Renzi. A destra questo avviene da sempre: con Forza Italia e Lega che si alleano, proprio perché il Popolo delle Libertà nel 2013 ha smesso di esistere.
Un partito immobilizzato dalla paura
L’impressione è però quella che il Pd abbia paura. Anzi: terrore folle. La tecnica dello stoccafisso è stata inspiegabilmente premiata dall’elettorato alle Europee. Stare insieme, litigare all’interno, esporsi solo come facile bersaglio e come causa di tutti i mali del mondo, e aspettare l’essicazione, evidentemente, funziona. Non sembra quindi esserci ragione per cambiare strategia. Zingaretti, da parte sua, sembra aver paura di esprimersi per non perdere quei preziosissimi e misteriosissimi punti percentuali, recuperati non si sa come in un anno. Le iniziative ideologiche (come nel caso Sea Watch) sono lasciate in mano all’intraprendenza dei singoli esponenti. Dal punto di vista etico, però, sarebbe questo il momento di prendere il coraggio a due mani, separarsi, smettere di farsi opposizione, ma iniziare a farla seriamente verso il Governo. Gli elettori di sinistra e di centro sinistra potrebbero avere due proposte politiche più definite. Voterebbero forse quindi senza turarsi il naso a causa di antipatie rivolte all’una o all’altra parte del Partito Democratico.
Le assenze strategiche
Anche i renziani, però, si stanno impegnando molto nelle operazioni di essicazione politica del Pd. L’impressione è che i parlamentari legati all’ex presidente del Consiglio stiano facendo di tutto per scongiurare la fine di questa scapestrata legislatura. Così come con nel caso del decreto crescita, sembra che quando il Pd abbia la rara occasione di dimostrare la sua forza e i suoi numeri in aula, ci siano assenze strategiche proprio nell’ala renziana. Il testo alla Camera è stato votato con una criticata assenza di massa, mentre in Senato le defezioni sono state più discrete. La presenza di tutti i renziani forse non avrebbe ribaltato la situazione, ma avrebbe mandato un segnale forte. L’assenza sembra dunque l’unica strategia, secondo questa parte, per dire a Zingaretti che il Pd non è pronto per una nuova campagna elettorale. Le nuove elezioni rischierebbero di consegnare con numeri ancor più plebiscitari il Paese a Salvini, liberato persino dall’ingombro dei Cinque Stelle.
Se cade il Governo
E se il mondo renziano sembra pronto a fare da stampella a un eventuale governo di scopo, strizzando addirittura l’occhio alle proposte grilline (sì, davvero) o guardando alle dinamiche interne di Forza Italia. Particolare interesse sembra suscitare infatti Mara Carfagna. Zingaretti, invece, ha fatto sapere a Mattarella che non darà nessuna disponibilità a formare esecutivi tecnici o di scopo. In tutto questo, però il Pd si ostina a stare insieme, a litigare ogni giorno su questioni di leadership, in un clima di paranoia interna, senza realisticamente nessuna via d’uscita che tenga insieme le due fazioni contemplando l’idea di nuova progettualità. Mentre il paese affonda, con o senza lo stoccafisso del Pd.
Elisa Ghidini