Una riconciliazione interna all’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e il superamento dei conflitti tra Fatah e Hamas sembrerebbero configurarsi come l’unica strada percorribile per rimettere al centro gli obiettivi della resistenza e recuperare credibilità agli occhi dei palestinesi delusi e abbandonati anche dai loro stessi rappresentanti politici.
Alla fine del mese di febbraio, Mohammed Shtayyeh, ex primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, in carica dal 2019, aveva rimesso il suo mandato nelle mani del presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas.
Davanti alla tragedia di Gaza, con più di 30.000 vittime, una carestia usata come arma di guerra da Israele, i camion di aiuti umanitari bloccati al valico di Rafah, trovare la via per una riconciliazione all’interno della governance palestinese, deve essere la priorità, se il fronte palestinese è diviso al suo interno ad avere la meglio è certamente il regime sionista.
Le dichiarazioni dei leader
“La prossima fase richiederà nuovi accordi governativi e politici che tengano conto della realtà che emerge nella Striscia di Gaza, dei colloqui di unità nazionale e dell’urgente necessità di un consenso interpalestinese”.
Anche le dichiarazioni di uno dei leader di Hamas sembrano muoversi nella direzione del riconoscimento dell’urgenza di una riconciliazione interna all’OLP che miri all’unità tra le due principali forze politiche palestinesi, Fatah e Hamas appunto.
Secondo quanto dichiarato da Mussa Abu Marzuq “Hamas sostiene un governo che regga la Striscia di Gaza composto da esponenti palestinesi competenti”.
La possibilità di costituire un governo tecnocratico d’unità non deve passare necessariamente attraverso l’ANP, bensì da una riconciliazione interna all’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
La centralità dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina
L’Organizzazione per la Liberalizzazione della Palestina è riconosciuta anche dall’ONU come espressione del popolo palestinese e dei milioni di rifugiati che dal 1948 e dal 1967 vivono sparsi nei campi profughi in Giordania, Siria e Libano.
La riconciliazione interna all’OLP rappresenta l’imperativo per riuscire ad incanalare ed incarnare concretamente le aspirazioni di libertà del popolo palestinese, in questo momento storico più che mai le azioni delle forze politiche palestinesi devono essere orientate al superamento delle divisioni politiche e ideologiche e all’inclusione di tutti i gruppi e le fazioni che sono espressione della lotta palestinese per la liberazione dall’oppressione sionista.
Hamas e Fatah devono fare fronte comune dando vita ad un campo unitario di resistenza.
L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina potrà riacquistare credibilità agli occhi del popolo ormai sfiduciato, solo prendendo in mano gli obiettivi di lotta ed incarnando la resistenza attraverso uno sforzo concreto e in prima linea. Serve un’inversione di rotta rispetto alle politiche intraprese in questi anni dall’Autorità Nazionale Palestinese, intenta a perseguire soluzioni diplomatiche e accomodanti che hanno finito per danneggiare e tradire i palestinesi.
La mediazione dei paesi arabi nella riconciliazione interna all’OLP con l’inclusione di Hamas
La mediazione da parte del Qatar e dell’Arabia Saudita per raggiungere un accordo di unità e riformare l’OLP può servire a Fatah per uscire dall’isolamento in cui si trova da anni ma anche ad Hamas, grazie alla vicinanza di Fatah ai paesi arabi e al suo accreditamento con l’Occidente.
Tuttavia, l’Arabia Saudita potrebbe conformarsi alla linea americana ed israeliana, mostrandosi poco propensa ad accettare Hamas nei negoziati.
Lo statuto di Hamas mira a ristabilire i confini del 1948, liberando la Palestina dalla presenza coloniale israeliana “dal mare al Giordano”.
Ma i fatti dimostrano che si tratta più di uno slogan propagandistico, o di un ideale, che di un obiettivo concreto perseguito.
Hamas non riconosce il progetto sionista, alla base dello Stato d’Israele, che fonda le politiche d’occupazione delle terre palestinesi e di assoggettamento ai danni del popolo nativo.
Ma sette anni fa, il movimento politico stanziato a Gaza, si era detto disponibile ad accettare un accordo che prevedesse il riconoscimento dello stato palestinese entro i confini del 1967.
Israele e Stati Uniti non vi hanno mai dato seguito, ma anzi lo hanno osteggiato.
Va sottolineato che David Ben Gurion, uno dei principali padri fondatori dello Stato d’Israele, mirava a costruire un’unica entità coloniale israeliana fondata sull’esclusività dell’etnia ebraica e quindi sull’annientamento e la repressione dei nativi palestinesi.
L’attuale statuto del Likud, partito israeliano di maggioranza, aspira ad imporre la sovranità israeliana “dal mare al Giordano” negando il controllo palestinese non solo su Gaza ma anche su tutti i territori della Palestina storica.
Lo stesso primo ministro israeliano Netanyahu si è detto sempre contrario alla nascita di uno Stato palestinese considerandolo un ostacolo alla sicurezza nazionale dello Stato d’Israele.
Gli Stati Uniti, tuttavia, condannano l’estremismo di Hamas, ma sembrano dare man forte, a parte qualche tiepida critica, alle posizioni del governo israeliano di assoluta chiusura verso ogni forma di compromesso e mediazione con la parte palestinese.
Il famoso doppio standard occidentale.