Una “Repubblica” in crisi

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E se c’è una immagine che rappresenta in pieno l’agonia di un modello di classe dirigente (politica e intellettuale) è rappresentato dal battibecco a distanza (un ossimoro permesso nell’epoca della telemediazione) fra Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari – i numi tutelari di Repubblica, quotidiano romano.

Il momento più acuto di questo confronto sono state l’intervista del noventenne Scalfari che alla 7 ha dichiarato di “fottersene” delle precedenti critiche dell’editore De Benedetti al giornale; e la risposta di quest’ultimo, che di nuovo sulla 7 per tutta risposta ha rinfacciato all’anziano direttore di averlo fatto ricco e di averlo salvato dal fallimento (ma prima e dopo sono volati complimenti sul filo di anziano narciso o bugiardo opportunista arricchito).

Con un ruolo differente, il primo finanziatore e il secondo direttore responsabile, sono stati i due principali fondatori e ispiratori del giornale.

Una pubblicazione la cui rilevanza e le cui ambizioni sono state ben sintetizzate dall’epiteto (in quanto definizione proveniente dagli avversari) di “partito-giornale”.

Una definizione con cui si voleva intendere, fra le altre cose, che “la Repubblica” non era un giornale di partito – ma che intendeva supplire alla crisi dei partiti, di cui si cominciavano a intuire gli sviluppi già negli anni 70, presentandosi in prima persona come esponente politico-culturale.



La Repubblica in quanto espressione, quotidiana, di una forza politica.

Se la Repubblica italiana era stata, per eccellenza, “la repubblica dei partiti” (come recitava anche il titolo di un saggio storico di Silvio Lanaro del 1992) il celebre quotidiano di piazza Indipendenza non si contrapponeva solamente – sul mercato editoriale – all’altro capisaldo delle classi dirigenti rappresentato dal “quotidiano di via Solferino” (cioè il “Corriere della Sera”).

Il giornale fondato da Scalfari e De Benedetti (e Caracciolo, e Valentini, e Sandro Viola, e tante altre firme e personalità) intendeva rappresentare un modello alternativo di classe dirigente.

Un forza e un esempio in grado di far fronte, come ho premesso, all’incipiente crisi del modello partitocratico dominante in Italia (in cui il governo razionale della cosa pubblica risulta da un continuo compromesso fra i partiti, i quali rappresentano non tanto liberi cittadini quanto blocchi d’interesse in linea di principio inconciliabili mediante un libero e dialettico dibattito).

La nostra democrazia per anni è stata, in sintesi, una convivenza precaria fra tanti “popoli” separati (comunisti, cattolici, laici…fascisti…qualunquisti…meridionali e settentrionali…eccetera) riaggregati solo dalla sintesi operata a un livello più alto, rispetto a quello della giornata elettorale – sotto il cappello delle ferree regole della Guerra Fredda e del mondo bipolare.

Questo schema è andato sempre più in crisi, negli anni 70, nel corso di un periodo drammatico che – oggi possiamo capirlo meglio – sperimentava i primi singhiozzi di un modello complessivo (la democrazia social-liberale) che oggi fronteggia una situazione di enorme sofferenza.

Il gruppo che fondò Repubblica capì queste cose, e lavorò per porvi rimedio – certo nell’interesse di un ceto sociale ed economico, ma nella convinzione di rappresentare una alternativa e una speranza per tutta la nazione.

Quel modello era fondato sull’idea illuministica che il cittadino, educato e informato, possa equilibrare i propri egoistici interessi nel corso del libero e franco dibattito con altri che, in partenza, fossero portatori di istanze ideologiche e posizioni economiche differenti.

La Repubblica sarebbe stata davvero compiuta, proprio nel superamento degli steccati ideologici rappresentati dai partiti – parti, che dovevano essere finalmente lasciate indietro per dar vita ad una unitaria agorà : la Repubblica, appunto.

Dietro tutto ciò, agivano diverse suggestioni culturali e precedenti esperienze.

Prima di tutto, il pensiero dell’azionismo di uomini come Calamandrei : l’antifascismo di Giustizia e Libertà, la sintesi del liberalsocialismo.

I primi due anni (1976-78) portarono il giornale vicino a fallire, e la ripresa venne aiutata (tragico paradosso) dal fatto che le Br quando rapirono Moro, per testimoniarne la sopravvivenza in prigionia lo fotografarono con una copia di Repubblica.

Ciò aumentò la notorità del quotidiano – la visibilità: un fattore irrazionale, che adiuvò la diffusione del quotidiano che voleva contrastare l’irrazionalità videocratica.

In ogni caso, la Repubblica acquisì copie e rilevanza, nemici e sostenitori, fino a superare il Corriere.

Grazie alla qualità, alle firme, alla coerenza, alla scelte innovative (in primis il formato).

Gli anni d’oro, peraltro, furono quelli in cui davvero il gruppo Repubblica-L’Espresso rappresentarono il primo contraltare all’egemonia Berlusconiana.

Non posso qui dilungarmi su queste vicende.

E’ chiaro che esser passato da alfiere dell’opposizione a un pericolo per la democrazia, al ruolo di sostenitore del sistema, magari sotto l’insegna della “responsabilità”, della “Europa”, e via dicendo – non ha giovato.

E la crisi dei quotidiani coinvolge tutti.

Ma lo spettacolo di un bisticcio fra anziani biliosi e gelosi sul mezzo televisivo – ironia della sorte, per coloro che della lotta al dominio della berluscuniana videocrazia avevano fatto una bandiera – ribadisco credo sia l’emblema di una crisi complessiva di un modello intellettuale.

L’epoca del compromesso fra liberalismo e socialismo, che dava come sintesi la democrazia repubblicana e interclassista, è in piena sofferenza.

Il gruppo di Repubblica aspirava a completare e realizzare quell’ideale : esso ha invece clamorosamente fallito, nel momento in cui non ha capito che bisognava contrastare con molta maggior convinzione e coerenza il sacrificio del valore del lavoro e quindi le istanze sociale, senza subordinarle alla teoria dei valori liberali.

Il blairismo, il veltronismo, sono state la maschera che ha coperto la rivincita del capitalismo sulla (social)democrazia e sui lavoratori.

Se non si può in tutto e per tutto associare Repubblica a quell’indirizzo, senz’altro si può accusare il giornale di non aver compreso in pieno quanto fenomeni come il grillismo, il neofascismo, la barbarie dei social e via di seguito, non nascano dal nulla ma proprio da una sinistra che ha perso le propria vocazione politiche per inseguire ragioni troppo lontane dalla cruda esistenza quotidiana.

Non vale per tutti i protagonisti di Repubblica : ma certo la sostituzione del direttore Ezio Mauro, che di questi temi ha fatto un cavallo di battaglia, con Mauro Calabresi che ha un differente approccio, rappresentò già nel 2016 un segno inequivocabile.

Insomma: Repubblica aveva sostanzialmente cavalcato la tigre renziana, con qualche correzione di rotta, e dopo il disastroso referendum non ha più ritrovata una rotta – una qualsiasi rotta.

Quello che vale per il Pd, vale per il quotidiano di Scalfari e De Benedetti: dopo quella sconfitta, bisognava procedere con una severa riflessione critica, e non imbandierare il motto dei “barbari ignoranti alle porte” sulla scia della polemica sulle fake news.

L’esito invece è stato l’endorsement a Berlusconi – il nemico di sempre – in nome della opposizione al demone-Grillo, e quasi null’altro : se non baruffe chiozzotte – senza nemmeno un buon bicchiere davanti.

 

Alessio Esposito

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