Una croce sul crocifisso?

Lega e obbligo del crocifisso crocifisso ultima voce

Ritorna ciclicamente, un po’ come la luna in ariete, il dibattito sull’opportunità del crocifisso nelle aule scolastiche.

Per la verità, più che a un dibattere vero e proprio si assiste a disordinate esternazioni, a qualche fuoco d’artificio, che presto si esaurisce entro il perimetro di un annoiato silenzio.
L’ultima ondata di opinioni sul crocifisso, tanto nette quanto prevedibili e stanche, l’ha scatenata il ministro Fioramonti poche settimane or sono, dichiarando di preferire “…una cartina geografica, o la Costituzione” al posto del ligneo Salvatore affisso alle pareti scolastiche. Una dichiarazione e non una proposta vera propria, ma sufficiente a ricordare a tanti italiani – come svegliatisi di soprassalto – le proprie radici cristiane.

Sul persistere di un simbolo religioso in edifici pubblici, al di là della sua legittimità, da più parti si afferma che la presenza di un crocifisso “…non dovrebbe infastidire nessuno”. Ma attenzione, è proprio qui che si può scorgere un primo punto d’interesse: per i più, infatti, la rappresentazione della crocifissione è divenuta semplicemente qualcosa che “non dà fastidio”. Le arcinote radici cristiane, in realtà, quasi tutti se le sono da tempo dimenticate: le chiese si spopolano, le case si riempiono di oggetti inutili, in spensierato contrasto con una qualsiasi tensione alla spiritualità (non solo riconducibile al cristianesimo).

Consumare è considerato un divertimento (da qui il termine shopping, che noi italiani interpretiamo in senso non letterale, riconducendolo più all’alveo dello sfizio che a quello della necessità). E ancora, l’introspezione è considerata una perdita di tempo, il silenzio è percepito unicamente come mancanza e mai come presenza. Arricchirsi – per chi ce la fa – è un valore in sé, e lo è altrettanto il raggiungere una qualsiasi notorietà, al di là di personali meriti o demeriti.

L’impatto culturale del cristianesimo, in realtà, è morente, e sempre in meno accorrono al suo capezzale. Si può rattristarsene, o al contrario gioirne (…gioiamo, per esempio, dello sfumare di quell’oscuro senso di colpa che il cattolicesimo ci ha consegnato in eredità), ma di certo la corale indignazione di tanti pubblici credenti – improvvisamente numerosi – dovrebbe stupire. Un corso stonato e fuori tempo massimo, se non fosse che una prima ragione sottostante al fenomeno è facilmente individuabile: si vuole evitare di fare “un favore” – così verrebbe percepita la rimozione del simbolo – all’immigrato di fede islamica.

Il musulmano, quindi, viene considerato pericoloso. Ma perché una minoranza dovrebbe costituire un pericolo? Questo è l’aspetto più sottile da comprendersi, e non riguarda la minaccia di una qualsiasi aggressione, né la possibilità di subire l’imposizione di abitudini culturali che appartengono alla tradizione islamica. Il punto è che una fede – loro – ce l’hanno, comunque la si voglia giudicare. E noi non ne abbiamo più nessuna. Noi, da questo punto di vista, possiamo dire di essere ormai “nulla”.
…C’è qualcosa per la quale siamo disposti a fare rinunce, a rischiare, a perdere del nostro? Non pare. Noi siamo i commensali con la pancia piena, seduti a un tavolo ricolmo e in prossimità del rutto. Cerchiamo di ingoiare più roba possibile perché, sotto sotto, non siamo per niente sicuri che dopo la nostra dipartita vi sarà un seguito. Meglio godersela ora, il più possibile. Il corpo del resto, ci pare l’unica cosa degna di essere nutrita. E’ per questo che temiamo l’altro: lo percepiamo come intriso di forza, intuiamo che in lui vi è qualcosa che noi abbiamo perduto.

Il crocifisso, per quanto pervicacemente appeso alle mura scolastiche, a livello collettivo è ormai divenuto un simulacro: rimuoverlo rappresenterebbe il riconoscimento ufficiale di qualcosa che è già accaduto da molti decenni. Dal momento, cioè, in cui si è realizzato l’irreversibile decesso della cultura contadina, il diffondersi di una spaventosa uniformità consumistica, e la diffusione di modelli promulgati attraverso l’unica vera voce dittatoriale che uno stato democratico possa accettare: la televisione.
Tutto questo l’abbiamo voluto e subito, l’abbiamo scelto e ne siamo stati scelti, e ora tremiamo di paura di fronte a chi ci ricorda cosa siamo diventati. Occultare lo specchio che ci restituisce il nostro ritratto non servirà a renderci diversi.

 

Walter Chiesa
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