Il 23 maggio del 1992 Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la loro scorta sono stati vittime di un brutale attentato mafioso.
Questa non è una notizia intesa come novità ma è importante ripeterla ogni anno e persino ogni giorno. Continuando a parlare di questi fatti si tiene viva la memoria di chi ha dato la vita per liberare l’Italia da un male apparentemente incurabile.
Magistrati e giornalisti contro la mafia
In quegli anni Falcone e Borsellino insieme a tutto il Pool Antimafia e alle forze dell’ordine lottarono contro Cosa Nostra. Furono anni molto difficili anche per i giornalisti che si occupavano di quei temi e che avevano stretti legami, persino emotivi, con i giudici.
Un giornalista che all’epoca si occupò di mafia fu Attilio Bolzoni, che scrisse un memorabile articolo sulla morte del giudice Falcone.
Il 24 maggio uscì su Repubblica il pezzo intitolato “Una strage come in Libano” e il suo attacco accompagna il lettore in un sapiente bilanciamento che passa dall’oggettività della situazione alla soggettività delle emozioni del cronista.
L’articolo ha fatto la storia del giornalismo. Il suo famoso incipit e tutta la carica emotiva che trasmette ci aiuta a capire quanto quegli anni fossero duri per magistrati, giornalisti e chiunque lottasse contro la mafia.
Il famoso incipit sulla morte di Giovanni Falcone
E’ morto, è morto nella sua Palermo, è morto fra le lamiere di un’auto blindata, è morto dentro il tritolo che apre la terra, è morto insieme ai compagni che per dieci anni l’avevano tenuto in vita coi mitra in mano. E’ morto con sua moglie Francesca. E’ morto, Giovanni Falcone è morto. Ucciso dalla mafia siciliana alle 17,58 del 23 maggio del 1992. La più infame delle stragi si consuma in cento metri di autostrada che portano all’inferno. Dove mille chili di tritolo sventrano l’asfalto e scagliano in aria uomini, alberi, macchine.
Dopo l’annuncio della strage e delle sue conseguenze mortali Bolzoni fotografa con le parole la devastazione successiva allo scoppio.
C’ è un boato enorme, sembra un tuono, sembra un vulcano che scarica la sua rabbia. In trenta, in trenta interminabili secondi il cielo rosso di una sera d’estate diventa nero, volano in alto le automobili corazzate, sprofondano in una voragine, spariscono sotto le macerie. Muore il giudice, muore Francesca, muoiono tre poliziotti della sua scorta. Ci sono anche sette feriti, ma c’è chi dice che sono più di dieci. Alcuni hanno le gambe spezzate, altri sono in fin di vita. Un bombordamento, la guerra. Sull’autostrada Trapani- Palermo i boss di Cosa Nostra cancellano in un attimo il simbolo della lotta alla mafia
Un articolo che sembra un urlo di dolore
Questo articolo drammatico e intenso ci porta dentro la costruzione di un pezzo scritto in pochissimo tempo in una giornata davvero tragica. Nell’attacco c’è una sintesi emotiva della notizia vera e propria, data attraverso un urlo di dolore sentito e partecipe. La ripetizione della frase “è morto” è come un pugno nello stomaco.
Dopo questa prima parte il racconto inizia ad estendersi a tutto ciò che è successo e presenta tutti i dettagli. Bolzoni fa la cronaca della giornata di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo (giudice anche lei) e della loro scorta (morirono gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro), descrivendo la quotidianità di un fine settimana che stava per iniziare.
Nell’articolo la cronaca degli avvenimenti si interseca alla descrizione della strada e dei vari cartelli che si incontrano e porta il lettore, minuto per minuto, al momento dello scoppio.
C’è poi la testimonianza di Salvatore Gambino che assiste alla fiammata e al fumo nero dell’esplosione. Il testimone oggettivizza il racconto, il cronista non scrive in presa diretta ma immagina l’ora dell’infamia.
Dopo l’esplosione Bolzoni descrive la distruzione e la corsa verso l’ospedale con le iniziali speranze di salvezza per il giudice e per la moglie, sino alla tragica e definitiva notizia.
Il punto di vista di Attilio Bolzoni su Giovanni Falcone e non solo
Bolzoni e molti cronisti siciliani hanno vissuto per dieci anni una quotidianità con i giudici che sono poi diventati non solo “fonti” ma veri e propri amici. Nel caso di Falcone per Bolzoni parliamo quasi di un fratello maggiore.
Per il giornalista non bisogna però fare l’errore di cadere nella commemorazione retorica alla quale siamo abituati. Bisogna ricordare Giovanni Falcone per quello che ha fatto e nel dettaglio per il Maxi-processo che ha radicalmente cambiato il volto della mafia.
Ad esempio pochi ricordano che il Congresso degli USA ha considerato l’attentato di Capaci un atto di guerra, dando un’idea dell’importanza internazionale del lavoro del giudice.
Un importantissimo aspetto è quello della banalizzazione del ricordo di “Giovanni e Paolo”. No, non erano semplicemente “Giovanni e Paolo”, erano il Dottor Falcone e il Dottor Borsellino, due giudici a cui tutti dobbiamo più di quanto pensiamo.
“Non sono un giornalista anti-mafia”
Bolzoni scriveva a Palermo negli anni delle stragi. Di cosa avrebbe dovuto parlare se non di quello?
Ripudiando questa “qualifica” mette in guardia da alcune definizioni devianti e afferma che il giornalista si occupa della realtà che lo circonda. Inoltre sottolinea la troppa facilità con il quale il cosiddetto giornalismo d’inchiesta diventi macchina del fango quando si avvicina troppo ad alcuni soggetti.
I giornalisti hanno dato e possono dare un grande contributo alla lotta alla mafia ma bisogna fare una importante distinzione: una cosa è fare memoria, un’altra è celebrare. La gente è stufa delle celebrazioni stantie e i parenti stessi delle vittime di mafia si aspettano molto più di discorsi e targhe.
La chiusura del pezzo
A sera tarda, a tardissima sera arriva la solita rivendicazione della Falange Armata, arriva la notizia del lutto cittadino in memoria di Giovanni Falcone, arriva la notizia del consiglio comunale che si riunisce in seduta straordinaria con quello provinciale. Arriva lo “sgomento” della città di Palermo, la “costernazione” della capitale siciliana per l’uomo simbolo, per l’uomo amato e odiato, per il giudice che ha mandato sotto processo mille uomini d’onore.
il giudice Falcone sapeva cosa lo attendeva, sapeva di essere molto più solo di quello che possiamo immaginare, magari aveva anche paura, ma non ha mai mollato. Ecco come Bolzoni ci racconta “l’uomo Giovanni Falcone”.
Gliel’avevano giurata a Giovanni Falcone. Gliel’avevano giurata tredici anni fa: “Morirai, lo sai che prima o poi morirai…”. E lui lo sapeva. Ma ridendo, con quella sua faccia che alcune volte lo rendeva antipatico anche gli amici che lo volevano bene, lui rispondeva: “Per me la vita vale come il bottone di questa giacca, io sono un siciliano, un siciliano vero”. E rideva, rideva, Giovanni Falcone.
Alessandro Milia