L’otto marzo del 2014 un jet della Malaysia Airlines è precipitato nell’Oceano Pacifico. Per settimane se ne sono cercati inutilmente i resti: le fotografie aeree e satellitari hanno evidenziato solo detriti non identificabili.
Come mai le ricerche sono state vane? Un’ipotesi è che i pezzi dell’aereo malese si siano mischiati ai rifiuti presenti in mare, assai numerosi in quella zona. Il quantitativo di plastica galleggiante nell’oceano sarebbe così elevato da rendere impossibile la cernita.
Si parla di Great Pacific Garbace Path riferendosi a un agglomerato di rifiuti che formerebbe una sorta di isola grande forse come il Texas: quasi cento milioni di tonnellate di spazzatura le cui dimensioni fanno sì che ogni altro tipo di detrito venga catturato.
Il vortice delle correnti farebbe convergere il materiale in una zona del nord Pacifico esclusa dalle rotte di navigazione proprio per la presenza dei forti flussi.
Una gemella dell’isola si sarebbe formata a sud, altre due nell’Atlantico e una nell’Oceano Indiano. Ci sarebbero due piccoli agglomerati anche nel Mediterraneo, uno tra Cagliari e le Egadi e l’altro tra La Spezia e l’arcipelago Toscano.
Dagli anni Sessanta la produzione di plastica è aumentata di venti volte e quadruplicherà entro il 2050. Si stimano in venticinque milioni di tonnellate i rifiuti buttati in mare ogni anno. I maggiori responsabili sono le nazioni asiatiche: Cina, Filippine, Thailandia, Indonesia e Vietnam. Solo il 5% viene riciclata, il 40% va in discarica e il resto finisce direttamente negli ecosistemi naturali come i mari.
Cosa accade alla plastica quando galleggia nell’acqua?
Essendo una materia sintetizzata artificialmente i suoi polimeri non sono biodegradabili come le sostanze organiche. Può pertanto frammentarsi a causa di forze meccaniche e questo spiega il suo assembrarsi in “isole”. Essendo fotodegradabile, l’esposizione alla luce comporta ulteriori modifiche e col tempo si disintegra in pezzi sempre più piccoli senza che le molecole si scompongano: si mescola al plancton e viene ingerita dagli animali che se ne nutrono, come le meduse. La plastica entra così nella catena alimentare provocando la morte per avvelenamento di tartarughe, pesci, uccelli e mammiferi marini o il loro soffocamento dovuto a sacchetti e pezzi che s’infilano nelle branchie, nella bocca o nello stomaco.
Ricercatori dell’Università di Exeter e del Plymouth Marine Laboratory hanno studiato lo zooplancton che ingerisce le microplastiche e nelle loro feci, oltre a carbonio e sostanze nutritive, hanno trovato elementi inquinanti che a loro volta sono ingoiati da altri organismi.
Cosa si può fare?
L’invito degli scienziati è ridurre la produzione di plastica soprattutto nell’imballaggio, incentivare il riciclo, la creazione di plastiche biodegradabili, stimolare attenzione da parte di tutti nell’eliminare quella che s’incontra, soprattutto lungo le spiagge e i corsi d’acqua.
E’ importante intervenire lungo le coste per evitare che i rifiuti vengano trascinati al largo: la sistemazione di barriere galleggianti può aiutarne la raccolta.
Un ragazzo olandese di sedici anni ne ha progettata una dopo essersi ritrovato circondato da sacchetti di plastica durante un’immersione.
Lo studente si chiama Boyan Slat e il progetto Ocean Cleanup.
Nel 2012 ha ideato la predisposizione di barriere in plexiglass lungo il percorso delle correnti in modo da convogliare la plastica verso stazioni galleggianti dotate di compattatori alimentati a energia solare, vincendo un premio all’università di Delf.
Il progetto è stato presentato a una conferenza organizzata da TedxTalks che si tiene ogni anno e in cui si raccolgono “idee con cui migliorare il mondo”, destando interesse a livello mondiale. Boyan ha dato vita a una fondazione per la raccolta on-line dei fondi per concretizzare l’idea: molti esperti volontari hanno contribuito alla stesura dello studio di fattibilità.
Quest’anno Ocean Cleanup verrà installata al largo dell’isola giapponese di Tsushima.
Un ragazzo di sedici anni è stato capace di mobilitare persone per cercare la soluzione a problemi che coinvolgono tutti, mettendo insieme una somma ingente per realizzarla.
Nel Sussex un altro gruppo ha invece elaborato il Seavax, una nave alimentata a energia solare che può raccogliere fino a ventidue milioni di chilogrammi di materiale plastico all’anno. Una piccola flotta potrebbe distruggere la Great Pacific Garbace Path in una decina d’anni. Ma la flotta va costruita e messa a punto.
Ci sarà chi sostiene che queste informazioni sono catastrofiche ed esagerate affermando, per tranquillizzare la coscienza, che non siano vere. Sono la prima a sperarlo.
Gli studiosi hanno ipotizzato che nel 2050 la presenza di plastica negli oceani supererà quella dei pesci. Saranno degli allarmisti pessimisti?
Quando d’estate vado al mare, attraverso una zona di macchia mediterranea per recarmi in spiaggia: lungo il sentiero noto sempre bottiglie e involucri di plastica abbandonati, nonostante la presenza di bidoni per la raccolta differenziata a poca distanza.
Molte persone passano di lì ma sono l’unica a chinarmi, raccoglierli e buttarli nei contenitori.
Persone che necessitano di visita oculistica o che preferiscono non vedere?
Paola Iotti