C’era un tempo in cui la professione dell’insegnante era al pari di quella del medico e dell’avvocato, quando era dotata ancora di una certa aura e rispettata, da alunni e genitori. Ebbene, questo tempo è finito, e uno dei mestieri più nobili e importanti per la formazione degli individui – e quindi della società – è precipitato in basso, con conseguenze negative sia sulla formazione degli studenti sia sulla persona stessa dell’insegnante.
Il professore si ritrova oggi circondato da giovani carichi di ormoni e poveri di rispetto, attaccato dalle famiglie dei suoi studenti sempre pronte a ergersi avvocati difensori dei propri figli (sempre e comunque), isolato dagli altri adulti, che spesso sottovalutano le difficoltà e i problemi che un’insegnante di oggi riscontra in classe. A questa mancanza di appoggio, di riconoscimento e comprensione che spesso caratterizza il sentire di un’insegnante, si aggiungono uno stipendio insufficiente e un mestiere che rischia facilmente di essere ripetitivo e rutinario. Ecco come il rischio di burnout è dietro l’angolo.
La sindrome del Burnout (dall’inglese “bruciato”) è una particolare forma depressiva, una condizione di stress e logorio lavorativo protratto e intenso, che causa perdita di interesse nella propria professione, svuotamento interiore e inefficienza nell’attività lavorativa. Solitamente soffre di tale sindrome chi opera nel campo della cura e dell’assistenza a persone in difficoltà, come infermieri, medici e psicologi, ma anche in generale tutte le figure professionali impegnate sul fronte delle intense relazioni umane, quindi anche insegnanti e professori.
“L’insegnamento è una professione usurante, soggetta ad una frequenza di patologie psichiatriche maggiore rispetto alle altre categorie della Pubblica Amministrazione: svolgendo una professione altamente ripetitiva e alienante, i docenti sono infatti sottoposti a diversi stress di tipo professionale”. Questo è quanto sostenuto nel 2014 dall’associazione sindacale Anief, a seguito dei risultati emersi da uno studio commissionato dall’Inpdap che, partendo dall’analisi degli accertamenti sanitari per l’inabilità al lavoro, ha operato un confronto tra insegnanti, impiegati e personale sanitario. Il risultato? Chi lavora dietro la cattedra ha presentato una serie di condizioni stressogene decisamente più alta.
Certo è che classi numerose, l’età pensionistica sempre più elevata, la carenza di personale, la limitata possibilità di carriera, la retribuzione insoddisfacente e – non da ultimo – la precarietà, non aiutano nel trovare soddisfazione in una professione che viene costantemente sottovalutata, non solo da studenti e genitori, dall’opinione pubblica, ma da un intero Paese che anziché tutelare le sue insegnanti (le donne sono più colpite da burnout), ignora i loro malesseri e peggiora il loro disagio.