Un dipendente del comune di San Daniele, in Friuli, denunciò alle SS che in quella casa, in via Piave, viveva una famiglia ebrea. Ambiva al posto da dirigente di sua sorella e la vendette ai nazisti con tutti i suoi cari. Arianna Szorenyi era una bambina, 11 anni. È stata internata nel campo di sterminio di Bergen Belsen, lo stesso di Anna Frank. Di lei Arianna non si ricorda, di Liliana Segre sì. E del vestito marrone che i nazisti le avevano fatto indossare, appartenuto a una bambina morta.
Finita la guerra, Arianna sopravvive ma non la sua famiglia, sterminata. Così finisce in orfanotrofio. E chi ritrova fra quelle tristi mura? La bambina figlia dell’italiano che li aveva traditi per un posto al sole, finito male anche lui.
Oggi Arianna ha 86 anni. E ieri un altro italiano, uno di noi, ha inciso una svastica sul muro di quella casa che dovrebbe esserci sacra come una chiesa. Perché tutti siamo complici della nostra storia nera, anche chi, come noi, non era ancora nato. E così ha dovuto risentire il rimbombo degli stivali sulle scale, le grida di 75 anni fa, i “Raus! Raus!”, i calci sulla porta, il terrore nel cuore.
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Poi un cuore di carta, fraterno, ha ricoperto la croce uncinata. Ma la memoria ha ripreso a sanguinare. “Quando aprirono il treno dei deportati”, racconta, “non sapevo che i vecchi li mandavano a morire. Io cercavo solo la mano della mia mamma. Non ho mai più visto i miei genitori”. È stata in quattro campi di sterminio diversi. E “a ogni trasferimento guardavo le fila di gente cercando il loro sguardo”. Inutile aggiungere altro, è solo l’ennesimo caso. Gesti infami dell’Italia di oggi. Provo tanta vergogna e rabbia. Perdonaci, Arianna.
Diego Cugia