Uno studio pubblicato sulla rivista Journal of Petrology spiega come si è arrivati ad identificare frammenti di un continente perduto al largo dell’isola di Baffin.
L’isola di Baffin appartiene all’Arcipelago Artico Canadese ed è quinta per estensione al mondo: abitata dalle popolazioni Inuit, ha tracce di insediamenti risalenti al 2400 A.C.
Un gruppo di geologi appartenenti all’Università della British Columbia e guidati da Maya Kopylova, durante una campagna di esplorazione del sottosuolo, ha rivenuto frammenti di rocce che possono essere ricondotti a resti di un continente perduto.
La scoperta , avvenuta quasi per caso, parte dall’analisi delle kimberliti, rocce magmatiche ultrabasiche la cui peculiarità è il contenuto in diamante, carbonio cristallizzato ad alte temperature ed elevate pressioni.
La maggior parte di queste rocce sono databili tra i 70 e i 150 milioni di anni fa, ma in Sud Africa, superano anche gli 1.5 miliardi di anni.
“Si tratta di rocce sotterranee che come razzi raccolgono passeggeri mentre salgono verso la superficie. E questi passeggeri sono pezzi di rocce che trasportano una grande quantità di dettagli sulle condizioni del sottosuolo terrestre nel corso del tempo” ha spiegato il capo Maya Kopylova.
Unire insieme i vari indizi è stato poi un lavoro abbastanza veloce: le rocce hanno avuto origine da una dispersione avvenuta all’incirca 150 milioni di anni fa in seguito alla frattura del cratone nordatlantico, un continente perduto di cui ad oggi conosciamo circa il 10%.
L’analisi di queste rocce ha portato ad identificare una firma minerale unica nel suo genere, che corrispondeva a quel cratone: una composizione che non legava dunque con alcuni dei cratoni adiacenti.
“Le precedenti ricostruzioni delle dimensioni e della posizione delle placche terrestri si basavano su campioni di roccia relativamente poco profondi nella crosta, formati a delle profondità da 1 a 10 chilometri” ha aggiunto Kopylova.
“Con queste nuove scoperte le nostre conoscenze sono letteralmente e simbolicamente più profonde”.
Chiara Nobis