La signora Maria Valeria De Filippi, detta Lella, mi racconta volentieri la sua storia, perché dice che di certe cose non si parla mai, sembrano quasi un tabù, anche se la disabilità potrebbe riguardare tutti.
Lella è una signora di Trieste di gli ottantaquattro anni. Distinta, portamento nobile, madre. Sola. Cinque, i suoi figli di cui uno deceduto e uno gravemente disabile a causa di un incidente. Figli avuti da due mariti, che l’hanno lasciata vedova due volte. Numeri importanti. La incontro al bar perché «i discorsi intimi non si fanno in casa, si è più liberi fuori», mi dice. Conosco in parte la sua storia e la sua capacità di ridere ed essere accogliente mi disarmano e mi sono di esempio. Lella non può perdere tempo a esprimere la sua rabbia né a mostrare le ferite del cuore che senza dubbio sono molto profonde.
L’adolescenza interrotta di Andrea
Con lei, desidero parlare del figlio Andrea, che la sera di sabato 28 gennaio 1983, all’età di 15 anni, ebbe un tragico incidente che lo portò alla disabilità.
«Era con un amico sul tetto di un supermercato, forse per recuperare un pallone o semplicemente per fare una bravata, quando il tetto di eternit si sfondò e lui cadde violentemente a testa in giù all’interno del negozio. Dopo circa mezz’ora, l’amico, che mai parlò dell’accaduto e di cui non si hanno più notizie, chiamò i soccorsi. Andrea e i fratelli, all’epoca, vivevano col padre in provincia di Pordenone, e quindi venne ricoverato lì. Dalla tac emerse che aveva un ematoma extra durale. Appena soccorso, camminava e parlava. Erano le nove di sera. A mezzanotte, i medici contattano l’ospedale di Udine chiedendo di preparare la sala operatoria di neurochirurgia che a Pordenone ancora mancava. A Udine, quel che accadde fu invece che Andrea rimase al pronto soccorso per troppe ore. Il medico di turno non riusciva a rintracciare il primario, Andrea andò in midriasi fissa e apnea: l’ematoma era diventato grosso come un’arancia. Il medico decise allora di operarlo. Una volta finito, Andrea entrò in coma profondo e vi rimase per quattro mesi. Si parlò di sindrome apallica».
A quel punto, l’adolescenza di Andrea sembra fermarsi, mentre l’energia della famiglia si concentra su di lui, così come la speranza che lo vuole vivo quando lui è da tanto tempo in bilico fra vita e morte, tanto tempo in cui di lui non si conoscono pensieri né emozioni vigili.
«Grazie a un dottore amico di famiglia -perché anche nella sanità servono le conoscenze-, Andrea rimane in medicina d’urgenza. Ci vollero mesi prima che desse qualche segno di vita. Fu ritrasferito a Pordenone, in seconda medica, dove un primario insistette affinché un chirurgo di Verona venisse a fare un consulto. Disse di levare il tappo messo dopo la tracheotomia per farlo respirare e alimentarlo e iniziarono a nutrirlo per bocca, cosa quasi impossibile perché non era in grado di deglutire, né di capire. Qualcosa, però, c’era in lui, la sorella aveva notato che faceva uno strano movimento con le labbra quando andavamo a trovarlo e quando vedeva avvicinarsi i medici, il respiro andava in affanno come se avesse paura. Tra l’altro, poteva aprire appena solo un occhio.
Lentamente si riprese cominciando a parlare con l’alfabeto muto, gli scrivevamo delle semplici domande su una lavagnetta e lui rispondeva. Dopodiché, fu ricoverato all’ospedale Gervasutta di Udine, dove fece moltissima fisioterapia e logopedia e in un anno riprese pian piano a parlare e poi a camminare, anche se male. Questo è stato il periodo più buio».
Cosa è successo, poi?
«C’è stata la presa in carico della situazione. Io ero sola, non sapevo a chi rivolgermi e se andavo a parlare con qualche organismo mi trovavo a rivivere tutto. Era doloroso e c’è voluto un po’ prima che il comune cominciasse ad agire, dandomi il supporto di un accompagnatore, in modo che Andrea potesse riprendere a studiare. Andò all’istituto magistrale, ma all’epoca erano molto arretrati sul trattamento dei disabili. Non lo favorirono, per esempio, mettendolo in un’aula vicino ai bagni e nemmeno gli insegnanti di sostegno miravano a valorizzare ciò che era in grado di dare come scritto nella legge 517, riempivano le sue lacune e stop. Finì, ma senza essere ammesso all’esame finale con la motivazione incredibile che se fosse passato, sarebbero stati costretti a dargli un diploma con cui poteva andare a lavorare».
Una follia. Che anno era?
«È tornato a Trieste nell’86, dopo la morte del padre. Sarà stato il ’90, ormai, credo. Questo, l’iter scolastico. Poi, è andato in un istituto a Lubiana che si occupava soltanto di traumatizzati cranici da incidenti. Lì, stava bene, aveva un appartamento dove viveva. Era sempre assistito, era felice, ha imparato anche lo sloveno in breve tempo».
E perché non ci è più andato?
«Perché qui, bisogna fare i conti con l’Inps, che dà pensione di invalidità e accompagnamento, ma se sei all’estero ti toglie i benefici e io non riuscivo più a provvedere né economicamente né praticamente agli spostamenti. Allora, l’ho mandato in un centro a Torino per cinque anni e poi è tornato a Trieste dove l’ho iscritto al centro diurno che ancora frequenta, quello dell’AISM. Ma Trieste non è come Lubiana, che molto aperta rispetto a una realtà come la nostra e anche molto meno burocratica».
Ci sono tanti inghippi non solo burocratici per fare qualcosa, immagino. Il peggiore che ha trovato qual è?
«Questo dell’INPS. Poi, per quanto riguarda il danno da trauma cranico qui c’è quasi un’assoluta impreparazione, anche fra le persone che dovrebbero essere competenti».
I medici, intende?
«Non solo, anche gli assistenti sociali e gli operatori socio sanitari in genere: non hanno strumenti nemmeno loro, anche questo va detto».
Mi racconta chi era Andrea prima dell’incidente?
La signora Lella non trattiene un sorriso.
«Era un ragazzino esuberante, esplosivo, intelligente e generoso».
E quale è stata la reazione di Andrea quando ha realizzato cos’era accaduto?
«Fu quando tornò a Trieste e ormai stava abbastanza bene, riusciva a stare in piedi. La sua reazione fu molto negativa perché si rese conto che lui non avrebbe avuto né una famiglia sua né un lavoro suo. Queste erano le due cose che più lo affliggevano. Ha avuto due uniche crisi di sconforto in questo senso, molto dolorose a vedersi, molto pesanti. Piangeva e sbatteva la testa sul muro. Poi, in qualche modo, si è adattato alla realtà perché è molto credente».
La fede lo ha aiutato, quindi…
«Sì, è da sempre molto devoto, pur non essendo un bigotto. Finora nella sua vita ci sono stati tre papi ed è riuscito ad abbracciarli tutti e tre, compreso Ratzinger che era inavvicinabile, questo gli è valso una foto sul giornale».
Pensa che, in qualche modo, la condizione di Andrea poteva essere evitata, o almeno non essere così grave?
«Ne sono sicura. Lui è stato operato otto ore dopo l’incidente, quando il massimo possibile sono sei per intervenire senza che ci siano danni gravissimi. Quindi, il tempo è stato determinante. Certo, è successo di sabato sera, perciò, anche il personale medico non è che sia sempre in servizio a pieno regime, ma, nel suo caso, di fatto, non c’era».
Ha mai pensato di fare causa?
«Sì, a suo tempo, ma credimi che ci ho messo vent’anni per avere la forza di muovermi. Purtroppo, non ho avuto nessuno della famiglia che mi supportasse in questo, e quando mi sono rivolta al tribunale del malato, mi hanno detto che era tardi, che non potevano fare più niente. Non ho mai voluto infierire sull’altro ragazzo, inizialmente volevo capire cosa fosse successo perché si trovassero sul tetto, ma è anche vero che il tetto non avrebbe dovuto essere di eternit e né essere accessibile.»
È molto arrabbiata?
«Sì. Ero arrabbiata. Ero».
Si è sentita sola?
«Molto, terribilmente».
E chi l’ha delusa di più?
«Mia madre perché io avevo capito che una delle soluzioni possibili, se non l’unica, era di aggregarsi in questa situazione così dura, perché c’era Andrea, ma c’erano anche altri quattro figli, di cui tre minorenni. A Pordenone avevo trovato un modo per poter stare tutti insieme e anche qui a Trieste. Così le avevo proposto di vendere tutto per unirci, ma lei non volle. Forse temeva di avere troppo peso con la presenza di Andrea».
E a livello istituzionale? Le mancanze più grandi, pratiche… Se dovesse chiedere al sindaco qualcosa, a parte più rampe?
«Una struttura più mirata e gli accessi. Mettere delle corsie percorribili dalla sedia a rotelle perché in alcune vie della città o lo stesso Molo Audace hanno il pavimento di masegni, che sono meravigliosi, ma difficili, pericolosi perfino».
Quali promesse e speranze disattese?
«Avrei voluto gli dessero un lavoro, almeno proforma, che desse ad Andrea un minimo di soddisfazione, o, semplicemente che gli facessero logopedia. Ma se vuoi fare qualcosa, spesso la devi fare a tue spese. Non nego che qui il comune dia parecchio, però non si occupa nella maniera ottimale, in maniera mirata, si occupa genericamente, ‘ti do un tot di soldi e arrangiati’».
E sono abbastanza questi soldi?
«Dipende. Se devi seguire un disabile fermo in carrozzina che non chiede altro a parte di essere nutrito e lavato allora può bastare, forse, ma una persona come Andrea, così vivace, estroversa, bisognosa di stare con gli altri, di andare a vedere spettacoli, di fare sport, di essere in giro, non bastano».
Soprattutto con una mamma che ha voluto fare di tutto affinché lui avesse una vita più bella e normale possibile, immagino…
«Sì. Mi preoccupa il ‘dopo di me’, perché adesso organizzo tutto, però mi rendo conto che lo faccio solo io, tutto quello che riguarda i rapporti col comune, con i medici, con i fisiatri, tutto fa capo a me».
Gli altri figli?
«Si adagiano un po’ e quando ho delegato qualcuno, ho visto che il risultato era spesso negativo».
Quali sono le difficoltà più grandi di avere un figlio che è diventato disabile?
«Farlo accettare al resto della famiglia e riuscire ad essere presente anche con gli altri figli. Questa è una grossissima difficoltà perché naturalmente tutte le forze sono convogliate lì, per ovvia necessità, tanto più nel mio caso che sono sola, non c’è un padre ad aiutarmi. Questa è la difficoltà maggiore: riuscire a rimanere presente con tutti gli altri componenti della famiglia».
Crede di esserci riuscita?
«Solo in parte, ahimè».
Credo che tutto il possibile non si possa fare solo in parte e sono convinta che questo è ciò che la signora Lella ha fatto.