Ingiustamente trascurato dalla scena architettonica che lo ha spesso etichettato come progettista di interni, Umberto Riva fu autore di interventi e contributi fondamentali alla storia dell’architettura e del design italiano.
Ci lascia nella notte del 25 giugno a 93 anni, Umberto Riva, uno dei più noti architetti e designer italiani. Di Umberto Riva si ricordano in particolare numerosi progetti abitativi, come le celebri Casa Frea a Milano e Casa Miggiano ad Otranto, attività di design per progetti di lampade e arredi, e memorabili interventi alla Triennale di Milano come numerose partecipazioni alla Biennale di Venezia e la Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana nel 2003. Sebbene fosse stimato come “poeta degli interni”, questa etichetta gli costò il confinamento a una categoria da sempre considerata minore.
Un percorso da outsider
Con questa sorte da outsider, nel segno del silenzio e della riservatezza più ostinata Umberto Riva intraprese un lungo percorso di ricerca, per lo più solitaria ed autodidatta, che lo condusse a creare un suo metodo anti- minimalista e ad essere ricordato come uno dei più eleganti ed originali progettisti italiani. Discepolo di Carlo Scarpa, è da lui che apprende le fondamenta della sua estetica. Dalla “spazialità intensa e sofferta” che riesce a captare nei progetti di Scarpa, Riva da origine alla caratteristica configurazione “flipper”. Mai ortogonale, mai simmetrico, costringe l’osservatore – fattosi pallina – a rimbalzare tra le linee oblique degli spazi onde coglierne i segreti nascosti in planimetria, a riarticolare il punto di vista obbligando l’occhio ad inchinarsi agli ambienti.
Umberto Riva si inserisce con un atto di rottura magistrale all’interno di un panorama che vede una dedizione quasi sacrale alla linea, alla riduzione, all’ortogonalità. Il minimalismo che mira alla semplificazione simmetrica, al raggiungimento di un’armonia quasi zen tra forma e sostanza, non lo convince affatto e non gli piace.
Anti- minimalismo: Umberto Riva come antieroe del design
Umberto Riva si auto proclama orgogliosamente anti-minimalista e, rifiutando la logica dell’ortogonalità, sceglie di accompagnare fisicamente l’osservatore in quella che sarà una ricerca infinita di nuove coordinate, una ricerca senza pace. Come in un gioco che inventa nuova regole a ogni partita, gli interventi di Riva puntano proprio a sgretolare l’ordine, a frantumare per poi ri-articolare permettendo all’osservatore di ripensare la plasticità di un oggetto ed immaginarne la funzione in un ambiente. Umberto Riva conosce il segreto dell’energia delle forme e, attraverso la potenza precaria del non finito, ci lascia in bilico fra concretezza e fantasia.
Le linee oblique frequentissime, le precarie asimmetrie, il non finito ricorrente, le sovrapposizioni tanto amate, permettono a chi osserva di completare a proprio piacimento la scoperta dell’opera attraverso proiezioni personalissime.
Il paesaggio, il non finito, le cose: le linee guida di Umberto Riva
«Non ho idee progettuali a priori; l’idea nasce sempre da suggestioni: un paesaggio, il rapporto con una persona. Non calo l’architettura in un luogo; è il luogo che mi dice cosa fare”
Umberto Riva non vuole avere l’ultima parola sui suoi progetti, preferisce far intervenire l’osservatore o il paesaggio. Il che è frutto di un principio fondante della sua estetica che non prevede la trasmissione di alcun messaggio esistenziale da parte dell’autore, ma che mette al primo posto il paesaggio come protagonista di ogni intervento. Il suo codice estetico- deontologico mette al bando il pensiero astratto e in primo piano il rapporto fisico – quasi affettivo – con l’oggetto, con le cose. Dotato di una concretezza straordinaria, sapeva mutare in azione ciò che non gli era sufficiente esistesse in potenza.
“Le cose sono cose e io non so niente di loro, voglio averci a che fare alla pari”
Come la casa ideale, che immagina come una pagina bianca da riempire, i progetti di Riva appaiono come bozze di non finito esposte all’occhio di chi guarda. Un’esperienza di conoscenza che non inciampa contro punti a capo e non si abbatte contro affermazioni perentorie, libera di rinnovarsi di continuo. Proprio questa attrazione magnetica verso l’incompiuto e il non finito lo rendono quasi ostile e spaventato dalla definitiva chiusura di un progetto, che dovrebbe restare ai suoi occhi un work in progress sempre in evoluzione, modificabile. Salvare in versione definitiva un’intenzione, altro non sarebbe che una condanna a morte.
“Io non amo mai quello che faccio, e quando vedo le mie cose rimango sempre molto deluso, ma non per un’idea generica, ma perché c’è dentro un investimento di intenzioni che poi realizzate non si riconoscono più”
Serena Oliveri