Dalle armi al buon senso – L’UE ha investito ben 22,8 miliardi per la creazione di un esercito comune, coinvolgendo così le nazioni implicate; la Corte dei Conti preferisce negare l’autorizzazione, causa gli squilibri interni alla Comunità.
Gli squilibri sono di due entità: economiche e relazionali. Partiamo con ordine.
Il giudizio tranchant vergato dalla Corte dei conti europea risale al 12 settembre scorso e boccia automaticamente ogni prospettiva di politica comune sul fronte militare. Solo nel bilancio tra 2014 e il 2020, l’UE aveva confermato 2,8 miliardi di euro; una cifra tutt’altro che modesta e che, in più, andrebbe a sovvenzionare un progetto tutt’altro che fattibile.
Secondo i giudici, lo spreco di denaro, tra bilanci nazionali differenti e ridefinizioni della NATO, sarebbe ingente.
Non solo: la politica militare muta di paese in paese; difatti, gli accorgimenti difensivi, nonché la strategia necessaria a rendere un esercito omogeneo, rendono difficile perfino immaginarne una bozza. Tra le obiezioni della Corte si legge:
La cooperazione e le capacità militari attuali degli Stati membri non corrispondono al nuovo livello di ambizione della politica di difesa dell’UE. […] Le recenti iniziative a livello di UE e il proposto incremento dei finanziamenti comportano rischi per la performance
Quando si parla di “ambizione”, l’argomento in gioco è chiaro, soprattutto perché è ben noto il dispiego di “energie finanziare”. Teniamo inoltre conto del fatto che aderire ad una simile iniziativa richiede un investimento pari a 90 miliardi l’anno – valente, ovviamente, per tutti gli stati dell’UE aderenti alla NATO.
Solo nel 2017, i 28 Stati membri hanno devoluto oltre 200 miliardi di euro alla difesa. Dai primi anni 2000, i costi sono notevolmente saliti, causa il coinvolgimento in operazioni civili e militari, che richiesero – e richiedono – la partecipazione di personale misto (dai militari ai semplici ufficiali di polizia).
Le inefficienze nel settore si notano anche per una semplice questione di gestione: sappiamo che la corsa agli armamenti è un po’ come una gara a chi “ce l’ha più lungo”; tralasciando le scurrilità, si parla di una diplomatica congiunzione di interessi, in virtù di un bene comune, un equilibrio che, in questo settore, non si è mai visto. La storia insegna.
Dall’altro lato, da un punto di vista puramente aziendale, le spese vengono influenzate dagli interessi personali, compresi i traffici tra alcuni paesi – piuttosto che altri.
Insomma, se volessimo tralasciare la questione etica e ragionassimo in termini puramente materiali, ci si renderebbe conto della reale problematica vigente. Il disegno europeo, per quanto storicamente ammirevole, non tiene conto degli equilibri tra nazioni; ciò che questo episodio porta alla luce è l’ennesima mancanza di cooperazione. Certo, una prospettiva militare fa sempre paura, per cui qualcuno sarà sollevato; ma non mi fraintenda il lettore quando assumo questa mancanza come una proiezione importante, la chiarificazione di un’alleanza che non sussiste.
Un esercito comune può essere visto come il diavolo o come una possibilità che può generarsi solo se palesata una forte comunicazione tra gli interessati. In questo caso, il messaggio fondamentale è tra le righe. D’altro canto, è anche difficile ignorare quanto denaro sia stato speso in questi decenni per una semplice dimostrazione di supremazia; sembra che dalla guerra fredda non si sia mai usciti, ma che al contrario sia mutata in una forma più inquietante, se possibile.
Certo, difficile pensare di restare con le mani in mano, soprattutto quando il tuo vicino di casa, oltre ad avere il giardino rigoglioso, ti prende in giro dallo steccato.
Eugenio Bianco