Il 15 giugno Uber Eats ha annunciato la cessazione di tutte le sue attività in Italia a partire dal 15 luglio. Jacopo Peracchio, rider, racconta a Ultima Voce dubbi e interrogativi condivisi da lui e altri rider sulla chiusura frettolosa e il modus operandi dell’azienda negli anni passati.
Uber Eats annuncia la chiusura
È di qualche settimana fa la notizia della chiusura definitiva delle attività di Uber Eats in Italia e del conseguente licenziamento di tutti i suoi lavoratori. Più recente e sicuramente meno conosciuta è la notizia sulle condizioni con cui parte dei lavoratori sono stati lasciati a casa. A ciò si aggiungono ambiguità e dubbi che questa chiusura ha fatto sorgere in numerosi lavoratori della compagnia – oltre ai metodi di pagamento utilizzati e altre questioni avvenute durante la presenza dell’azienda in Italia.
Uno di loro, Jacopo Peracchio, ha deciso di rilasciare un’intervista a Ultima Voce.
Jacopo è un ragazzo di 25 anni, studia Sociologia all’Università di Firenze e per arrotondare lavorava come rider per Uber Eats e altre compagnie di delivery. Si è reso subito disponibile quando gli ho chiesto se potesse concedermi un’intervista, “perché credo che la chiusura di Uber Eats Italia nasconda degli aspetti poco chiari”.
Fin dall’inizio Jacopo ci tiene a specificare che, a suo giudizio, l’impegno sindacale nei confronti dei rider è stato minimo, e che le proteste e i presidi organizzati sono risultati insufficienti. Jacopo ha un passato da rappresentate sindacale e attualmente è molto vicino agli ambienti sindacalisti a Firenze e può confermare che “lavorando sia con Uber sia con Deliveroo ed essendo molto vicino agli ambienti di Si Cobas e CGL non mi risulta che ci sia stata nessuna manifestazione sindacale”.
Passa poi a elencare le altre discrepanze che hanno fatto sorgere dubbi a lui e altri lavoratori. Il 5 giugno, quando ancora la notizia della chiusura di Uber non era stata fatta circolare, lui ed alcuni suoi colleghi ricevono una mail in cui vengono invitati a prendere parte a una tavola rotonda a Firenze, il cui obiettivo sarebbe stato quello di rilasciare feedback sul funzionamento dell’app di Uber Eats. Jacopo specifica che, da quando aveva iniziato a lavorare per la compagnia a dicembre 2022, questa fosse la prima volta che l’azienda organizzava un evento del genere. Inoltre, nella mail veniva sottolineato il carattere periodico di questo tipo di eventi, quando neanche pochi neanche pochi giorni dopo è stata annunciata la chiusura della sede italiana, “suona un po’ come una presa in giro” sottolinea Jacopo.
La decisione della chiusura ufficiale di Uber al pubblico viene divulgata attraverso un comunicato sul sito web dell’azienda, il 15 giugno, ai driver invece viene precedentemente inviata una mail. Ciò che, secondo Jacopo, pare piuttosto ambiguo è il fatto che ad alcuni viene comunicata come data di chiusura effettiva il 15 luglio mentre ad altri il 21. Inoltre, l’app dell’azienda, fino al giorno dell’intervista con Jacopo, avvenuta lunedì 18 luglio, risulterebbe ancora funzionante e accessibile per effettuare consegne, nonostante lui sia tra quelli che avrebbero dovuto cessare il rapporto al 15.
La chiusura di Uber Eats Italia ha lasciato a casa migliaia di rider, i quali, avendo un contratto di tipo occasionale, non hanno diritto ad alcun aiuto economico: non hanno maturato TFR né possono accedere al NASPI. Situazione diversa invece per i 50 dipendenti, i quali non solo possono accedere alle varie tutele economiche, ma l’azienda, con loro si è anche detta disponibile e a incontrare e confrontarsi con i rappresentati diretti degli impiegati. Cosa non avvenuta per i rider.
Altro aspetto a risultare anomalo è la spiegazione della chiusura data dall’azienda. Uber Eats in un comunicato spiega che la cessazione dell’attività in Italia è dovuta a una crescita economica della compagnia “non in linea con le nostre aspettative”. Ma Jacopo sostiene che “per come la vivo io in prima persona, e per come ho avuto modo di parlare con altri rider, il lavoro c’è”.
E poi continua:
“Io desumo che le motivazioni della chiusura possano essere altre perché io, lavorando sia con Uber che con Deliveroo posso vedere le differenze; per esempio, l’altro giorno ho fatto nell’orario di pranzo sei consegne con Uber e due con Deliveroo. Altra impressione che ho lavorandoci, è che l’80% circa dei clienti di Uber sono di origine straniera, turisti; ed adesso stiamo andando in un periodo molto turistico. Io non vorrei che fosse il solito giochino della multinazionale che dice non va bene così, non va bene qua e poi magari se ne esce con un altro nome, un’altra piattaforma. Il fatto è questo: Uber non ha dato spiegazioni più dettagliate, non ha fornito dati, hanno detto è così e fine. Poi noi non sappiamo quali siano stati gli introiti di Uber Eats Italia, quant’è il punto di ritorno dell’investimento” e conclude: “ma siccome nessuno sa niente, i sindacati fino a ieri l’altro non hanno detto niente. Allora mi faccio anche un po’ la domanda se questo gli viene lasciato fare; non è possibile che qualsiasi sigla sindacale se ne sia accorta solo ora che una grande multinazionale come Uber prenda, dall’oggi al domani, e dica io chiudo tutto”.
Modalità di lavoro adottate dalle varie piattaforme delivery
Ma a lasciare perplessi e amareggiati non è solo la condotta tenuta da Uber Eats a chiusura dell’azienda, ma il suo – oltre che di altre piattaforme – modus operandi durante tutti gli anni di servizio. Uber Eats, Deliveroo, FoodToGo, Glovo, SocialFood dovrebbero rispettare il CCNL (Contratto Collettivo Nazionale Lavoratori) il quale prevede che ogni lavoratore guadagni un minimo di 10 euro lordi l’ora e che sia garantito un minimo di 7 euro lordi nei primi 4 mesi nelle zone o città di nuova apertura. A questo proposito, Jacopo dichiara che “loro ti dicono che questa cosa verrà poi riportata in un prospetto mensile ma poi essenzialmente questa cosa nel prospetto non c’è”.
Il problema è sempre lo stesso: le aziende, avendo il monopolio o quasi del settore, possono stabilire le regole, approfittando del vuoto legislativo dello Stato “Non c’è un’attenzione al settore, né da parte delle istituzioni nel regolarlo, né da parte delle sigle sindacali nel monitorare la situazione, e tanto meno da parte delle aziende a essere cristalline”, dice Jacopo.
Una tra i tanti aspetti poco chiari menzionati da Jacopo è il metodo di assegnazione delle consegne ai rider. Alla base della scelta del rider, c’è un algoritmo che assegna i vari ordini presumibilmente, attraverso un criterio di vicinanza tra rider e punto di consegna dell’ordine. Presumibilmente, perché accedere agli algoritmi delle varie piattaforme è complicato in quanto coperti dal segreto industriale e neppure la magistratura, nonostante le numerose richieste fatte negli anni, è riuscita ad avervi accesso. Jacopo racconta questo episodio: spesso trovandosi insieme due o tre rider, uno di loro ha provato a rifiutare la consegna. Questa teoricamente dovrebbe passare al rider più prossimo, secondo il criterio di vicinanza, questa cosa però non succede.
“Tu conta che il settore del delivery è un settore complesso, la maggior parte dei lavoratori è straniera e di provenienza asiatica che lavora con doppie piattaforme, doppi account, e dietro tutto ciò si cela anche uno sfruttamento. Il settore delivery è lasciato un po’ a sé stesso”, afferma Jacopo.
La maggior parte dei fattorini giunge in Italia dopo aver affrontato la rotta balcanica, spesso trovandosi nell’illegalità e, non potendo richiedere i documenti, sono vulnerabili all’abuso e allo sfruttamento da parte di individui senza scrupoli. Si trovano quindi costretti a lavorare con account di altri – gli account sono personali, servono i documenti per aprirne uno – per poter ripagare il debito contratto per arrivare in Europa, trovandosi così incastrati in un vero e proprio racket.
Sebbene, come sostiene Jacopo, ci siano difficoltà da affrontare, le aziende di delivery avrebbero tutti i mezzi per prendere provvedimenti che garantiscano condizioni di lavoro che quantomeno rispettino le leggi e i diritti umani. In un mondo in cui il sistema capitalistico vince ogni giorno, in cui la forbice tra chi sta meglio e chi peggio si allarga sempre di più, e in cui lo scopo di molte aziende è quello di massimizzare il profitto a ogni costo, chiudendo gli occhi di fronte alle peggiori atrocità, dovrebbe essere lo Stato a farsi carico del problema con una legislazione chiara, e un conseguente sistema di controlli che sanzioni chi le leggi non le rispetta.