È uscita il 14 ottobre la serie di Netflix “Tutto chiede salvezza”, composta da 7 episodi, attualmente in tendenza tra le serie più viste. Si ispira all’omonimo romanzo di Daniele Mencarelli, vincitore del Premio Strega.
È una serie che tratta delle malattie mentali in un modo innovativo: le dinamiche del TSO in cui si ritrova Daniele, il protagonista, dopo aver avuto una crisi psicotica di cui inizialmente nemmeno si ricorda, vengono affrontate da un punto di vista diverso, dall’interno, con un occhio attento, quasi divertito, sicuramente empatico.
Una serie portavoce del disagio di chi soffre di una malattia mentale
“Tutto chiede salvezza“ è portavoce di un disagio della società, che non è il disagio che si portano appresso Daniele, Gianluca, Giorgio, Nina e Mario, quello del disturbo mentale, ma è il peso che devono sopportare, dovuto al giudizio che la società ha di loro. Lo sentiamo fin dalla prima puntata da parte di Daniele stesso, il quale è il primo discriminare i suoi compagni. Poi, integrandosi, butta giù quei muri che aveva alzato nei confronti dei suoi conviventi, i “pazzi”, gli esclusi dalla società. Riesce infatti a capire la profondità delle loro anime e le storie che si portano in quel lettino di ospedale. La paura del giudizio si ripercuote poi sui genitori, sugli amici, ai quali è fondamentale inventare una scusa per nascondere la verità. Infatti, sentiamo spesso Daniele dire: “Io non sono come loro”, acutizzando il divario tra coloro che ritiene normali e gli altri, i “diversi”.
La recitazione, discreta, in alcuni casi eccellente, riesce bene a rappresentare anche quei personaggi che non hanno parola, ma solo urla, come “Madonnina”. In puntate dove la tristezza sembra prevalere, le note di ironia e comicità spiccano e si inseriscono bene, mentre la drammaticità di altre scene è resa dall’ottima sceneggiatura. La profonda amicizia che si viene a creare tra i personaggi, inoltre, infonde un senso di speranza, ed è facile affezionarsi ad ognuno di loro.
Il dramma dei non compresi
È una serie che rispecchia la società di oggi, specialmente per il caso del protagonista, in cui non è difficile rivedersi, anche se in minima parte. Il reparto psichiatrico è un ambiente talmente stigmatizzato che è ancora usato come sfondo scenico di banali film o racconti horror, ma questa serie aiuta proprio a rompere questi pregiudizi, a familiarizzare con un ospedale psichiatrico, mettendo in rilievo anche alcuni aspetti problematici, come la mancanza di personale o la mancanza di sicurezza, causa, questa, di diversi incidenti.
“Allora è questo che significa essere pazzi?” Questa è la domanda che più colpisce. Basta davvero essere ricoverato in un reparto psichiatrico per sette giorni per essere definiti “pazzi”? La serie cerca di scardinare l’idea del “pazzo” rinchiuso in un reparto psichiatrico, dando valore piuttosto a quella che è la cura della malattia. Nel terzo episodio, infatti, il dottor Mancino afferma:
“Io non capisco perché il cervello non venga trattato come il resto del corpo, chi è malato d’ulcera che fa? Si cura l’ulcera. E chi ha un problema al cervello deve fare la stessa cosa”.
Agire, non subire
Se si ricerca il senso della storia di Daniele, è proprio quello di dare forza a coloro che si trovano nella stessa situazione. Non siete soli, non siete pazzi. L’affermazione del dottor Mancino esplica in modo esaustivo il fatto che la malattia mentale non è uno scalino insormontabile davanti a cui si deve soccombere. Ci sono cure, soluzioni. La serie invita lo spettatore a sdrammatizzare, ad empatizzare con loro, anche con chi non ha più parola, come Alessandro. Ci insegna ad affrontare i demoni del passato e vedere il buono nelle piccole cose, ma specialmente ad apprezzare la diversità, la follia che caratterizza quella camera dell’ospedale psichiatrico, ma ancor di più il mondo esterno. Come dice il titolo stesso tutto, o meglio, tutti chiedono salvezza