Niccolò Ciatti, 22 anni, ammazzato in una discoteca spagnola per una banale spinta. Ucciso da tre belve addestrate, tre picchiatori ceceni capaci di colpire per uccidere, tre assassini incapaci di fermarsi quando il corpo del giovane era ormai a terra, inerme.
Intorno un nutrito gruppo di ragazzi. Giovani anche loro, pietrificati. Sono in cerchio, osservano increduli, qualcuno gesticola ma nessuno interviene.
La follia di questa storia è sicuramente racchiusa nelle teste di coloro che hanno intenzionalmente portato via la vita di Niccolò per un motivo banale, talmente futile da imporre ad ognuno di noi una riflessione sulla progressiva svalutazione dell’altro e della vita, probabilmente a causa dell’incremento della famigliarità alla violenza a cui sono sottoposte le nuove generazioni.
Eppure esaurito lo sgomento verso il gesto, sempre che si possa arrivare ad accettare una morte così insensata, sotto le luci dei riflettori sono finiti tutti gli altri, quei ragazzi apparentemente diventati gli spettatori di un delitto che secondo buona parte dell’opinione pubblica e secondo le parole dello stesso padre di Niccolò era evitabile. Una triste vittoria della vigliaccheria sulla solidarietà umana, almeno osservando il quadro dipinto su questa assurda vicenda.
Si può comprendere la rigidità delle posizioni di un padre che ha perso un figlio, credo gli sia dovuto. Tuttavia nessuno può essere giudice delle proprie cause e nessuno può pretendere di afferrare la complessità della mente umana da un video di pochi secondi in cui appaiono una cinquantina di vite umane, ognuna con le proprie peculiarità. Ognuna con le proprie paure.
Basterebbe citare un fenomeno psicologico sociale per spiegare il comportamento passivo di quelle decine di giovani quella notte: il bystander effect, l’effetto spettatore. Gli individui infatti tendono a non offrire aiuto quando sono presenti altre persone. Più alto è il numero di individui, più è bassa la possibilità che il singolo sia spinto ad intervenire. Ciò è correlato al nostro senso di responsabilità, che è meno sentito se più alto è il numero delle persone con cui viene condiviso, e con la nostra istintiva indisponibilità a comportarci in maniera diversa dagli altri.
Aldilà dello studio, pubblicato a metà degli anni Sessanta e al quale sono state aggiunte nel tempo diverse integrazioni, ciò che va sottolineato è dunque l’enorme ondata di indignazione seguita dalla pubblicazione (di dubbio valore deontologico) del video della morte di Niccolò. Ciò che è emerso racconta di una tendenza del popolo web ad esprimere violenza forcaiola nei confronti di chi ha assistito “inebetito” agli ultimi momenti di vita di Niccolò, di una rabbia in parte legittima fomentata dalle immagini crude dell’omicidio.
La riflessione a cui siamo tutti soggetti, seppur con difficoltà, dovrebbe partire dal poco affascinante presupposto che la nostra vita non si svolge fra i versi di un poema epico ma in un mondo complesso e a volte inspiegabile. Dovremmo prendere coscienza della frequente debolezza della nostra volontà e della sostanziale incoerenza fra pensiero umano ed azione. Abbiamo il dovere di cercare di immedesimarci nelle insensate conseguenze dettate dalla paura e dall’adrenalina, svestendoci per un secondo della ingombrante lucidità del “se ci fossi stato io”.
Non è la prima volta che assistiamo a scenari simili né sarà l’ultima. Qualcuno avrà la fortuna di vederli filtrati dallo schermo di un pc o da uno smartphone, altri proveranno quella sensazione di impotenza attraversare corpo e mente trovandosi direttamente coinvolti. Per questi, purtroppo, al terrore si aggiungerà il senso di colpa per molto tempo. Ciò di cui non avranno bisogno, questo è certo, è di una platea di giudici assetati di vendetta e di opinioni mai richieste.
È difficile da accettare ma dobbiamo cominciare a farlo: chiunque di noi quella maledetta sera poteva essere fra quei vigliacchi.