Quella della violenza sulle donne è forse la peggiore spina al fianco della società moderna.
Non conosce confine, religione, età. Colpisce inesorabile. Colpisce ingiustamente, sempre. E, a ogni chilometro percorso, la violenza sulle donne assume sfumature diverse, finendo spesso con l’affrancarsi in quanto pratica socialmente accettabile, entro determinati ambiti.
Sono queste le premesse che riempiono di speranza la proposta d’inasprire la legge contro la violenza sulle donne, attualmente in discussione nel parlamento tunisino. Già lo scorso luglio si era arrivati, dopo una lunga gestazione, a una legge contro i maltrattamenti e la violenza sulle donne. Una legge che puntasse alla tutela della dignità e garantisse effettive pari opportunità per il gentil sesso. Tuttavia, nonostante il passo avanti compiuto, l’attuale legge non contempla reati di violenza se a perpetrarli è il coniuge e nemmeno se sono inflitti a una donna minore di vent’anni, perché in tal caso il violentatore può sposare la vittima.
Ci voleva Meriem Ben Mohamed, che nel settembre di quattro anni fa fu accusata di indecenza per aver denunciato lo stupro da parte di due agenti di polizia. Ci voleva il suo coraggio e la rivoluzione dei gelsomini, per far sì che si chiedesse a gran voce di fare qualcosa e smetterla finalmente di subire il più grottesco degli oltraggi. Gli agenti di polizia furono condannati, quella prima legge è stata finalmente promulgata, eppure si procede a singhiozzo.
La proposta di irrigidire l’attuale normativa in vigore è stata presentata da Ennahda – Movimento della Rinascita -, partito moderato riformista di ispirazione islamica nella cui compagine militano molte donne. Se l’inasprimento della normativa ci sarà o meno, lo sapremo entro fine anno. In caso affermativo, i mariti violenti possono iniziare a tremare perché sarebbero finalmente perseguibili. Pene più severe anche per molestie sessuali sul luogo di lavoro e a tal proposito si prevedono già adeguati corsi di formazione sulle questioni di genere, riservati a polizia e personale ospedaliero. Si inizia a parlare di violenza psicologica e, perché no, economica. Insomma, si inizia a parlare di concetti rivoluzionari, laddove la dignità e i diritti di una donna vengono riconosciuti entro certi limiti.
Una donna tunisina può abortire e su matrimonio, divorzio e proprietà ha gli stessi diritti di un uomo, ma un rapporto di Amnesty International sulla situazione tunisina testimonia come questa non sia una realtà omogenea, tutt’altro. Esistono, in barba a leggi e rivoluzioni, tante piccole realtà che costellano il Paese dove ancora la precisa attribuzione di ruoli comporta una subordinazione femminile che si spinge al punto da negare ogni validità alla parola di una donna. Qualora vittima di stupro, ancora oggi, la donna di questi micro-cosmi è una macchia indelebile all’onore della famiglia ed è questo concetto, la reputazione familiare, la pesante pressione psicologica che spinge due terzi delle vittime a ritirare la denuncia sporta contro il coniuge.
Ci voleva Meriem, davvero. Ci vorrebbe pure una Franca Viola tunisina. E se vi state chiedendo chi sia mai costei, sappiate che è la donna che ha cambiato il destino di molte donne, quando la Sicilia non aveva differenza alcuna con la Tunisia. Anche in Sicilia uno stupro era un’onta. Un danno da riparare col matrimonio. Lo era così tanto che molti uomini preventivavano l’escamotage della violenza per forzare le nozze. Ci volle Franca Viola, ad Alcamo, per interrompere questo meccanismo perverso. Fu la prima donna italiana ad opporsi al matrimonio riparatore. Era il 1962 quando la giovane quindicenne si fidanzò, con il consenso dei genitori, con Filippo Melodia, benestante e imparentato con un noto mafioso locale. Quando costui venne accusato di furto e di associazione mafiosa, la famiglia Viola decise di rompere il fidanzamento. Franca venne sequestrata per otto giorni in un casolare fuori Alcamo. Furono giorni in cui la donna subì ogni tipo di violenza. Quando venne il momento della “paciata”, l’incontro tra le famiglie volto a mettere sul fatto compiuto la violenza carnale e fare accettare il matrimonio alla famiglia di lei, i genitori della ragazza finsero di acconsentire e, d’intesa con le forze di polizia, il giorno dopo ci fu l’irruzione nell’abitazione di Melodia con il conseguente arresto. Non fu facile vivere da “donna svergognata” in un periodo in cui il matrimonio riparatore era contemplato nel codice penale. Ma la caparbietà di Franca, alla fine, ebbe la meglio con la condanna di Filippo Melodia a 11 anni di carcere.
Ci vorrebbe, anzi, ci vuole una Franca Viola in ogni luogo ove essere donna è quasi una colpa. Ci vogliono donne per bene, che nella silenziosa resistenza alle ferite fisiche e morali, preparino un Paese alla rivoluzione culturale. Perché senza quella, le leggi sono solo sterili divieti da arginare.
Alessandra Maria