Esattamente un anno fa in Tunisia c’è stato lo strappo del presidente Kais Saied, una sorta di colpo di mano istituzionale coinciso con la decisione di sciogliere il parlamento e mandare a casa il primo ministro. La Tunisia si è ritrovata quindi spaccata tra sostenitori e oppositori del presidente e il 25 luglio sarà chiamata ad approvare una nuova Costituzione.
Clima politico rovente in Tunisia
Le manifestazioni, sia a sostegno che contro il referendum,si intensificano e in questi giorni centinaia di manifestanti hanno tentato di arrivare fino alla sede della commissione elettorale, causando disordini e scontri con le forze dell’ordine.
Molti temono che la nuova Carta, presidenziale e con una grande concentrazione di potere nelle mani di Saied, possa allontanare il paese dalla democrazia facendo ritornare la dittatura sconfitta dalla rivolta del 2011.
Anche i giudici hanno scioperato, ma la loro dimostrazione di dissenso si è interrotta dopo il blocco degli stipendi degli scioperanti.
In diverse città i sostenitori del presidente hanno organizzato presidi per incitare la popolazione a partecipare al voto. Il referendum è valido senza quorum, quindi la campagna per il boicottaggio sarebbe autolesionista e faciliterebbe il passaggio della nuova costituzione anche con una bassa partecipazione al voto.
E se Saied vincesse il referendum?
Se il referendum dovesse passare il presidente vedrebbe aumentare i suoi poteri istituzionali e assumerebbe il controllo sul governo e sulla magistratura.
Il suo mandato di cinque anni potrebbe essere rinnovato per altri cinque con la possibilità di un ulteriore allungamento. Saied sarebbe inoltre in grado di sciogliere il parlamento senza essere soggetto ad alcun controllo.
I timori di una deriva autoritaria, denunciata dagli oppositori di Saied, sono aumentati lo scorso 5 luglio. Una sentenza del tribunale di Tunisi ha infatti congelato i beni dell’ex presidente del parlamento, Rashid Ghannouchi, e di altre nove figure di spicco del partito Ennahda.
Quest’ultimo è il partito islamico in prima linea nell’opporsi all’accentramento dei poteri nelle mani del presidente. Ennahda è inoltre contrario alla svolta che vedrebbe la Tunisia come primo stato arabo a non avere l’Islam come religione di Stato. Saied ha infatti spiegato che lo Stato, per sua natura, non può avere una religione.
Il consenso di cui gode Saied
Quando un anno fa Saied sciolse il parlamento, i tunisini scesero in piazza a festeggiare. La sua decisione era infatti giunta dopo mesi di stallo politico e istituzionale. I tunisini che avevano accolto con favore il colpo di mano erano stanchi di una classe politica inefficiente, corrotta e incapace.
Saied gode tutt’oggi del sostegno silenzioso di buona parte della popolazione, che gli riconosce il merito di una mossa dolorosa ma necessaria per sradicare la corruzione e il clientelismo.
Dopo alcune importanti polemiche il presidente ha però modificato la proposta costituzionale in due punti molto controversi. Ha ridefinito la Tunisia come “parte della comunità islamica” e ha aggiunto che “lo stato deve lavorare per raggiungere gli obiettivi dell’Islam”. Infine ha specificato che “nessuna restrizione può essere posta ai diritti e alle libertà garantiti se non per legge e necessità imposte da un ordine democratico”.
La disillusione e la paura
Nonostante le ultime modifiche, per una frangia dell’opinione pubblica tunisina che aveva concesso a Saied il beneficio del dubbio è arrivata la fine delle illusioni.
Il nuovo testo introduce infatti un sistema presidenziale in cui il capo dello stato esercita il potere esecutivo, e designa una sorta di capo fantoccio del governo che non deve neanche presentarsi in parlamento per ottenere la fiducia.
Il presidente è anche comandante supremo delle forze armate, definisce la politica del paese, ratifica le leggi e può presentare testi legislativi direttamente al parlamento. La nuova costituzione prevede inoltre una forte riduzione del ruolo dell’assemblea nazionale.
La soluzione alle difficoltà economiche e politiche della Tunisia non può essere la replica di scenari già visti in Egitto con Al Sisi e in Libia con Gheddafi.
L’impressione però è quella di una nuova dittatura all’orizzonte.