Trump è sconfitto, ma in quattro anni ha alzato l’asticella del politicamente corretto e consentito: non basta quindi la vittoria di Joe Biden per spazzare via con un colpo di spugna ciò che il Trumpismo ha seminato in questo primo (e fortunatamente) unico mandato. Tra arroganza verbale, utilizzo strumentale e deliberato di notizie false, bullismo politico e complottismo anti Covid, il Trumpismo è servito. E lo sarà ancora per molto tempo.
La pagina inglese di Wikipedia ha una definizione piuttosto chiara della parola “Trumpism”: lo descrive come un’ideologia politica, uno stile di governo, un movimento politico e un insieme di meccanismi “per acquisire e mantenere il potere associati al presidente degli Stati Uniti Donald Trump”. Continua Wikipedia: “È una versione americana del sentimento populista conservatore e nazionale di destra visto in più nazioni in tutto il mondo e contiene alcuni aspetti della democrazia illiberale”. E’, ovviamente, collegato alla figura di Donald Trump, ma è limitato definirlo come un’ideologia circoscritta alla sua figura, perché il trumpismo non è Trump, ma va ben oltre Trump.
Il Trumpismo come complottismo
Questa definizione, per quanto generica, a pochi giorni dalla sconfitta di Donald Trump nella corsa per le presidenziali, ci restituisce un’immagine degli Stati Uniti, della loro compagine elettorale e sociale, ma anche del mondo intero, che non si può ignorare. Molti hanno salutato la vittoria di Biden ballando per strada e festeggiando con i toni celebrativi di chi ha, dopo tanto tempo, sconfitto il nemico.
E questo non può essere smentito, sia chiaro: Trump è battuto, d’accordo. E lo è finché non emergeranno seri argomenti di prova sui brogli a cui tanto si appella. Perché, per ora, con buona pace di Rudy Giuliani, nulla è emerso. Anzi: il conteggio dei voti sta proseguendo e la forbice che separa i consensi di Biden da quelli dell’ormai presidente uscente si sta allargando sempre di più. Se è relativamente facile dimostrare i brogli su una manciata di voti di scarto, infatti, diventa sempre più problematico farlo quando le schede da riconsiderare iniziano a diventare decine di migliaia in diversi Stati.
La politica non è un interruttore
Trump, quindi, ha perso. Ma non il Trumpismo. Il Trumpismo, evidentemente, è un’altra cosa e per sconfiggerlo non basterà l’entusiasmo di una vittoria elettorale che, per quanto importante, non funziona come un interruttore. Oggi Trump è presidente, domani non lo sarà più, ma le sue idee, il suo modo di fare e la sua capacità di aggregare milioni di voti attorno al suo complottismo istrionico non andranno in buio, così, da un giorno all’altro. Per capirlo meglio, si può andare a scavare a fondo nella storia politica statunitense, cercando un nome preciso che risponde all’appellativo di Newt Gingrich. Ma questa è un’altra storia.
Il ruolo del negazionismo
Dicevamo: Trump ha perso, ma la sua presidenza ha segnato indelebilmente il modo di fare politica nel mondo, alzando, di non poco, l’asticella del politicamente ridicolo. Ha arricchito di centinaia di sfumature la parola “negazionismo”: se la sua presidenza è iniziata sotto il segno del negazionismo ambientale, dicendo che il riscaldamento globale non esiste, “perché a New York nevica”, è proseguita a spron battuto verso il negazionismo relativo alla pandemia. Non mettere la mascherina è diventato un gesto politico: questo ha messo a rischio la vita di milioni di statunitensi che, in modo deliberato, ostentavano e ostentano fieri l’appoggio al presidente. La scena su Trump, quindi, non poteva che chiudersi con i negazionisti della sconfitta: non è la politica dei fatti, ma è quella delle opinioni. Se, precedentemente, si partiva da premesse fattuali comuni, per arrivare a idee diverse, oggi, nell’epoca della post verità, il primo fondamentale pilastro crolla.
L’anti-Trumpismo come collante
Chi è dall’altra parte, intanto, può avere qualche vantaggio, come quello di fare fronte comune contro un nemico che sta antipatico a tutti: è quello che è accaduto in questi ultimi quattro anni all’Unione Europea che, seppure timidamente, ha fatto qualcosa per essere più unita su questioni come gli Eurobond, il ruolo più centralizzato della Commissione e, non da ultima, la gestione della pandemia.
Dall’altra parte, però, c’è anche chi ha cercato di emulare, anche goffamente, il Trumpismo in Europa: Salvini in Italia, la Le Pen in Francia, il movimento Brexit nel Regno Unito e Geert Wilders nei Paesi Bassi. Il Trumpismo, adesso, esiste e non solo negli Usa. Tante persone lo hanno assorbito in tutti gli angoli della Terra come modo di rapportarsi con gli avversari e con il pubblico. E non basta certo l’elezione di Joe Biden, anche semplicemente come interlocutore più moderato, per fare marcia indietro e cancellare con un colpo di spugna questi quattro anni.
Politica non come risultato elettorale ma come contesto
Per citare un esempio: nascendo in Italia all’inizio degli anni Novanta, io sono stata una bambina, poi un’adolescente e ora un’adulta cresciuta all’ombra del berlusconismo. Per me è normalissimo pensare che i politici siano ricchissimi e che possiedano i canali televisivi che mi tengono compagnia il pomeriggio. Anzi, forse è proprio il mio stereotipo di politico. Per la generazione dei miei genitori, non lo è: o meglio, con il passare del tempo si sono assuefatti a questo modello. Il berlusconismo, in Italia è un precedente, un punto di non ritorno nella politica e, nonostante Silvio Berlusconi non sia più al Governo da parecchio tempo, nessun colpo di spugna elettorale ha cancellato i vent’anni che abbiamo passato in sua compagnia.
Per la generazione che oggi è adolescente e cresce in Italia, sarà normalissimo avere come asticella di riferimento un Matteo Salvini, con il suo modo di fare politica e come punto di non ritorno. Così come, per chi cresce oggi negli Stati Uniti, Trump è comunque un politico che andrà a costituire parte dell’immaginario degli adulti di domani, anche se avrà perso le elezioni del 2020.
La manfrina dell’outsider
La campagna elettorale del 2016 e quella del 2020 sono state diverse per molti motivi, ma anche simili per altri. Nel 2016, Trump si presentava come outsider, come colui che avrebbe cacciato i “professionisti” della politica, colpevoli, tra le altre cose, di aver trascinato gli Stati Uniti nella crisi economica del 2008. Incredibilmente, gli statunitensi avevano abboccato all’esca di questo miliardario, nato, come si dice da quelle parti, con il silver spoon, che si diceva pronto a combattere un establishment di cui lui stesso faceva parte, almeno economicamente.
Nel 2020, ancora una volta, Donald Trump si è presentato come outsider rispetto a un Joe Biden, in politica da quarant’anni. Sì, Donald Trump si è presentato come outsider e la gente gli ha creduto: lo ha fatto, incredibilmente, dal ruolo più professionistico che la politica mondiale prevede, vale a dire la presidenza degli Stati Uniti. E questo è un fatto, non un’opinione.
Opinioni contro fatti
I fatti, però nel Trumpismo della post verità, non contano più. Contano le ricostruzioni di una verità da dare in pasto ai propri elettori, perché l’oggettività è sparita e non interessa più a nessuno. Non interessa la scienza, non interessa la storia: è tutto ridotto a opinione. C’è il Covid? “Secondo me non esiste”: è l’era del secondo me. Con la differenza che, negli Stati Uniti, molti canali televisivi hanno smesso di trasmettere i discorsi in diretta di Donald Trump perché contenenti troppe fake news, cioè opinioni espresse come fatti. Non è tutto oro ciò che luccica, d’accordo: ma è un passo in più verso l’oggettività. Nel nostro Paese, invece, il trumpismo ha anche il megafono televisivo. Più uno la spara grossa, prima le televisioni accorrono per trasformarlo in un contenuto virale.
Eppure, qui, Trump non ha mai vinto le elezioni, ma il Trumpismo esiste lo stesso.
Elisa Ghidini