Pur essendo uno dei presidenti meno apprezzati nella storia statunitense, Donald Trump, a detta di molti giornali, sarebbe il favorito per le presidenziali USA del 2020. La sua amministrazione ha inanellato una serie di mosse avventate e inefficaci, bisogna dirlo. Ma Trump pare essere in testa ai sondaggi in modo addirittura più significativo rispetto alle previsioni per la tornata del 2016.
Il gradimento popolare in questo caso c’entra poco. A far intravedere questo vantaggio sono ben altri motivi: la legge elettorale degli Stati Uniti, i miglioramenti introdotti nel suo comitato elettorale e la lunga lista di candidati alle primarie per i Democratici, oltre a un innegabile apprezzamento del tycoon da parte dei Repubblicani.
La legge elettorale
E’ d’obbligo una premessa sul funzionamento delle elezioni presidenziali USA del 2020, ma non solo. Il compito è affidato ai famigerati “grandi elettori”, cioè persone che i partiti incaricano per fornire il nome del capo nella nuova amministrazione sulla base del risultato delle urne. I grandi elettori sono 538 e sono assegnati su base geografica e quantitativa. Di conseguenza, gli stati con un maggiore numero di abitanti possono contare su decine di grandi elettori. Queste persone insieme formano il collegio elettorale, un’istituzione cuscinetto fatta per tamponare il problema eventuale dell’inadeguatezza di un presidente comunque democraticamente eletto. Non vince quindi chi prende un maggior numero di voti (ricordate Hillary Clinton nel 2016?), ma che raccoglie più voti in uno stato ha il diritto di esprimere tutti i grandi elettori.
Il vero nodo è rappresentato da alcuni swing states, cioè da quei territori come la Florida o la Pennsylvania, in cui Repubblicani e Democratici sono più o meno pari a livello di consenso. Qui anche un solo voto può cambiare le carte in tavola per cannibalizzare tutti i delegati. A Trump basterebbe quindi conservare gli stati tradizionalmente repubblicani e alcuni degli swing states che gli accordarono la fiducia nel 2016, dove comunque è ancora apprezzato.
Il gradimento popolare
Il tasso di approvazione generale di Trump è sempre stato abbastanza basso, ma sembra comunque in linea con quello dei suoi predecessori nella stessa fase del mandato, attorno al 42%. Nel suo partito, invece, è altissimo, con un costante 90% di apprezzamento repubblicano. La nomina di giudici conservatori, l’ingente diminuzione delle tasse e le proposte relative al muro col Messico sembrano aver ulteriormente convinto i suoi sostenitori. Scandali, gaffe e dichiarazioni infelici anche sul piano internazionale non hanno invece eroso il gradimento di cui già godeva. La sua reputazione, salvo enormi scoop, non sembra destinata a metterlo in crisi.
L’apprezzamento in economia
Come ricorda spesso Trump stesso, il 56% degli statunitensi appoggia quanto il loro presidente ha fatto per l’economia del Paese. Inoltre, mentre gli esperti paventano l’arrivo di una nuova recessione mondiale, l’elettorato non ha preso coscienza di questo pericolo e, anche alla sua esplosione, potrebbe servire del tempo per toccarne con mano le conseguenze.
Il nuovo comitato elettorale
Un servizio del Washington Post che descrive il comitato elettorale di Trump come “una macchina per la rielezione mai vista prima”.
Per fare peggio del 2016, diciamo, sarebbe stato necessario molto impegno. L’ex comitato, formato da amici e parenti inspiegabilmente incaricati e ben presto destituiti, era piuttosto improbabile, ma riuscì in qualche modo a non annaspare del tutto e a portare a casa il risultato. Il comitato odierno, invece, sulla carta sembra molto più competente. Ha un direttore che è esperto di campagne sui social network, un referente per la raccolta fondi apprezzato e il direttore finanziario che proviene direttamente dalla squadra di Bush. Al momento lavorano al comitato già in 400 collaboratori.
La macchina è già al lavoro da oltre un anno e ha già raccolto fondi record, polverizzando le cifre precedenti. Solo nella giornata successiva al lancio della campagna, sono arrivati nelle tasche dell’organizzazione quasi 25 milioni di dollari.
I 21 candidati Democratici
La trafila per arrivare a eleggere il candidato che affronterà Trump sarà molto intensa. Il partito dei Democratici annuncia solitamente il candidato ufficiale nella open convention. Per prassi e comodità, quando i candidati sono pochi, già tempo prima si conosce comunque il nome del candidato. Questo consente di tagliare le tempistiche nell’organizzazione della vera e propria campagna presidenziale. Per le presidenziali USA del 2020, invece, si stima che, con 21 candidati, sarà solo questo evento ufficiale a rivelare all’elettorato il nome democratico.
Il sistema di votazione per le primarie è stato poi innovato, ma le modifiche potrebbero appesantire la stessa macchina democratica. Le primarie negli Stati più popolosi, California e Texas, si terranno solo un mese dopo il loro inizio: il Super Tuesday cadrà il 3 marzo e tutti i candidati saranno ancora papabili. Anche in questo ambito, vige un sistema di delegati: un’assegnazione anticipata (dopo solo un mese dall’apertura delle primarie) rischia di smembrare i consensi.
Il fuoco amico tra i Democratici
Il timore è quello che la convention ufficiale si trasformi in un baratto tra delegati. I questo caso, tra accuse di corruzione e cambi di casacca vari, il fuoco amico potrebbe essere fatale al candidato democratico che dovrà affrontare il favorito Trump. Arriverebbe già indebolito dagli scontri interni, per affrontare le presidenziali USA del 2020. Il suo rivale Trump, salvo svolte impreviste, sarà già mediamente apprezzato e al lavoro su quell’obiettivo con due anni di vantaggio. Tra l’altro con una montagna di finanziamenti destinati a crescere.
Elisa Ghidini